L’accordo per il Tribunale unificato dei brevetti: quali prospettive dopo la ratifica italiana e la Brexit?

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Abstract: The entry into force of the Agreement on the Unified Patent Court looks nowadays even more uncertain than it did before. The Brexit has seriously impacted on the cautious optimisms believing in its possible entry into force by Spring 2017. While the ratification process keeps moving onwards – reaching in November 2016 the thirteenth ratification, among these the Italian one – States do not seem to realize that a new treaty needs to be signed in all cases. Indeed the recent Agreement is limited to States who are Members of the EU. The present comment envisages to briefly outline the alternatives that may arise when the Brexit will be actually implemented.

Keywords: Brexit – UPC – unified patent system – CJEU – treaty ratification – EU Member State.
 

I. Lo stato dell’arte del “pacchetto brevettuale”

A quasi quattro anni dall’adozione degli atti che hanno segnato l’avvio di un sistema di tutela brevettuale dell’Unione europea è lecito interrogarsi sulle prospettive di attuazione di questo complesso e ambizioso progetto. Due recenti eventi, infatti, danno lo spunto per interrogarsi sul suo avvenire: se, da un lato, si registra un nuovo slancio degli Stati che hanno provveduto a ulteriori ratifiche – ivi inclusa la recente approvazione della legge italiana –, dall’altro, non è possibile sottovalutare le conseguenze della c.d. Brexit sul sistema brevettuale.

Come noto, il c.d. pacchetto brevettuale è composto dai due regolamenti (UE) n. 1257/2012 e n. 1260/2012, rispettivamente sul brevetto ad effetto unitario e sul regime linguistico dello stesso, e dall’accordo internazionale firmato a Bruxelles il 19 febbraio 2013 che istituisce il Tribunale unificato dei brevetti (TUB, o meglio: UPC – secondo il più consueto acronimo inglese al quale ci si atterrà in seguito), cui è allegato lo Statuto dello stesso. La concreta operatività del sistema ha però richiesto l’adozione di ulteriori strumenti normativi, che sono stati emanati negli anni successivi. Innanzitutto le Rules of Procedure, che contengono quella complessa disciplina processuale indispensabile al funzionamento del Tribunale. Redatte da un apposito Preparatory Committee, le Rules nel giugno 2016 sono giunte alla loro 18ma versione, pur non essendo ancora definitive. Poi, il regolamento n. 524/2014 di modifica del regolamento Bruxelles I bis n. 1215/2012, al fine di determinare la giurisdizione del Tribunale unificato, l’unico degli atti citati già entrato in vigore; infine, in tempi più recenti, il Protocollo del 1° ottobre 2015 sull’applicazione anticipata di alcune disposizioni dell’Accordo istitutivo del Tribunale unificato e dello Statuto.

Una delle caratteristiche salienti del pacchetto brevettuale è quella di delineare un quadro fortemente integrato, in cui il piano materiale si salda inscindibilmente con quello processuale: il regolamento definisce le norme applicabili (lo ius) e l’accordo stabilisce la competenza giurisdizionale (forum). Concepito come un tutt’unico, il sistema può funzionare solo se tutte le sue componenti entrano in vigore contemporaneamente. Anche i due regolamenti, dunque, benché atti tipici dell’Unione europea e entrati in vigore il 20 gennaio 2013 tra i venticinque Stati parte alla cooperazione rafforzata,[1] subordinano la loro applicazione[2] all’entrata in vigore dell’accordo.[3]

A sua volta questo entrerà in vigore successivamente alla ratifica di almeno tredici Stati, tra cui dovranno essere i tre Stati nei quali era efficace il maggior numero di brevetti nell’anno precedente la firma dell’accordo (cfr. art. 89, par. 1). Fino a poco tempo fa tali Stati erano individuati in Gran Bretagna, Germania e Francia.

Molto è già stato scritto sui vantaggi e gli svantaggi del sistema brevettuale. In questa sede non è possibile nemmeno sintetizzarne i risultati.[4] In generale deve rilevarsi come l’accoglienza degli ambienti legali è stata alquanto tiepida, quando non decisamente ostile, specie in Italia ma anche in Germania e Francia.[5] Molteplici sono state le voci che si sono levate per fermare quello che è apparso un esperimento troppo complesso e rischioso. Nonostante ciò, tuttavia, e in modo forse quasi inaspettato, le ratifiche dell’Accordo si sono susseguite, lentamente e con cautela ma senza mai arrestarsi.

Al momento in cui si scrive (novembre 2016) sono state depositate undici ratifiche, da parte dei seguenti Stati: Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi (quest’ultima nel settembre 2016).

Nel corso del mese di ottobre, inoltre, anche Italia e Slovenia hanno concluso le procedure interne necessarie alla ratifica e il deposito delle stesse pare imminente, giungendo così alle tredici ratifiche.[6] Infine, nel Consiglio Competitività di ottobre Romania e Ungheria hanno dichiarato di avere iniziato le procedure interne necessarie alla ratifica dell’accordo. Come si vede dunque il processo è lento ma costante, né i recenti avvenimenti di Oltre Manica sembrano averne modificato il corso.

II. La legge di ratifica italiana

Con riguardo al nostro Paese, dopo l’iniziale ostilità per un progetto sentito come penalizzante a causa della lingua – culminato come noto nel ricorso alla Corte di giustizia per l’annullamento della decisione che autorizzava la cooperazione rafforzata[7] – si è passati a posizioni più aperte.

All’inizio del 2015, il (nuovo) Governo ha valutato fosse opportuno riconsiderare la posizione italiana alla luce degli interessi nazionali, e, verificata la concordanza delle competenti Commissioni parlamentari,[8] nel dicembre del 2015 ha proceduto a notificare la sua richiesta di partecipazione alla cooperazione rafforzata, per poi occuparsi della ratifica dell’accordo. Con la votazione favorevole del Senato, avvenuta lo scorso 18 ottobre, è stata definitivamente approvata la legge che autorizza il Presidente della Repubblica a ratificare l’accordo.[9]

La recente legge non si limita a ordinare l’esecuzione dell’accordo, ma introduce anche modifiche all’ordinamento interno atte a garantire il rispetto dell’accordo. Per quanto riguarda i profili processuali è modificato il D. Lgs. 27 giugno 2003 n. 168, che istituisce le sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale presso tribunali e corti d’appello. L’art. 3, comma 1, lett. a), viene completato con un ultimo comma che precisa che tali sezioni non possono conoscere delle azioni di merito e cautelari di competenza del futuro Tribunale. Con salvezza del regime applicabile nel periodo transitorio di cui all’art. 89 UPC, dunque, sono escluse dalla giurisdizione italiana le azioni attribuite all’UPC, quali elencate in particolare all’art. 32, par. 1, e agli artt. da 58 a 68 TUB.

Una modifica normativa viene apportata anche sul piano del diritto sostanziale. Il codice della proprietà intellettuale (CPI, D. Lgs. 10 febbraio 2005 n. 30) viene infatti arricchito di un’ulteriore ipotesi di esclusiva brevettuale, costituita dal diritto di impedire l’utilizzazione indiretta dell’invenzione. La fattispecie, enunciata dal nuovo art. 66, comma 2 bis (nonché ter e quater) CPI, contempla il diritto del titolare di un brevetto (ad effetto unitario, europeo o meramente nazionale) di vietare a terzi di fornire ad altri i mezzi relativi a un elemento indispensabile dell’invenzione e necessari per la sua attuazione in uno Stato in cui la stessa sia tutelata. La formulazione riprende testualmente, e con le relative eccezioni, la norma di cui all’art. 26 TUB.

La ratifica italiana si inserisce in un rilancio del ruolo politico ed economico dell’Italia sulla scena europea. Questo si manifesta, oltre che in un rinnovato slancio ed interesse di molte associazioni professionali, nella decisione di ospitare una divisione regionale della futura Corte. Il luogo adatto, da tempo individuato nella città di Milano, è stato ora formalizzato con l’indicazione di uno stabile situato dietro al Tribunale di Milano.[10] L’ampiezza della sede indicata, apparentemente sovradimensionata ad una divisione locale, lascia presagire l’auspicio che in futuro vi si possano svolgere maggiori funzioni.

III. Effetti della Brexit sul pacchetto brevettuale e necessità di un nuovo accordo

Alla luce del rinnovato interesse dimostrato dagli Stati in questi ultimi mesi (come illustrato, dal mese di settembre di quest’anno ben cinque Stati hanno ratificato o sono in procinto di ratificare l’accordo) occorre chiedersi quanto prossima sia l’eventuale entrata in vigore del Tribunale unificato del brevetto.

Nel corso della primavera di quest’anno (2016) si era in effetti diffuso un cauto ottimismo su quella che sarebbe certamente stata una svolta storica nella tutela brevettuale in Europa. Il trattato UPC aveva raggiunto le dieci ratifiche, la legge di autorizzazione alla ratifica era in corso di discussione in Germania, Olanda ed Italia; la stessa Gran Bretagna aveva lasciato intendere che la ratifica inglese sarebbe arrivata tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017; sempre più insistente girava la voce che nella primavera 2017 il pacchetto sarebbe entrato in vigore.

Il referendum di giugno sulla c.d. Brexit e il conseguente recesso della Gran Bretagna dall’Unione europea, che a quanto pare il Governo inglese vuole formalizzare nella primavera 2017,[11] è giunto inaspettato anche in questo ambito, creando sconcerto nei partner europei e sgomento nella comunità IP di Oltre Manica.

La posizione della Gran Bretagna appare sospesa tra quella che appariva l’imminente ratifica ad un meccanismo nel quale avrebbe giocato un ruolo importante, e il rifiuto di essere subordinata al sistema (normativo, ma soprattutto giurisdizionale) dell’Unione. Si apre così un ulteriore profilo di criticità, che sollecita a elaborare nuove soluzioni fuori dagli schemi sinora collaudati. Con qualsiasi scenario si possa immaginare, infatti, ci troveremo in una situazione di stallo che comporterà la negoziazione e la ratifica di un trattato completamente nuovo e/o la modifica del vecchio accordo UPC.

Chiariamo subito infatti che il tenore dell’attuale accordo UPC non consente a uno Stato non membro della UE di farne parte. Tale condizione è esplicitamente menzionata all’art. 84 UPC, che stabilisce che l’accordo è aperto alla firma “di qualsiasi Stato membro [UE]”.

Proprio per aggirare questo ostacolo è stata avanzata in dottrina l’ipotesi che la Gran Bretagna, approfittando del suo perdurante status di membro della UE, ratifichi rapidamente l’accordo UPC – come d’altra parte era intenzionata a fare fino a giugno – così da consentire l’entrata in vigore del sistema quale era stato pensato e costruito con oltre dieci anni di lavoro, e renda operativa la sua sede centrale.[12] Nel corso dei negoziati per l’uscita dalla UE i negoziatori di entrambe le parti si impegnerebbero a elaborare un testo che consenta la sua partecipazione al sistema.

La proposta è evidentemente ispirata alla esigenza pratica di gestire uno scenario che non era stato in alcun modo ipotizzato e che inevitabilmente richiederà una buona dose di creatività giuridica. Tuttavia, essa mi sembra forzare troppo il dato normativo e costituire un aggiramento della portata sostanziale non solo della norma che esprime le condizioni per la ratifica dell’accordo, ma dell’intero sistema che esprime (e garantisce) una stretta integrazione tra il sistema di tutela brevettuale e l’ordinamento dell’Unione europea.

A prescindere dal dato formale, poi, pare arduo immaginare che la cennata soluzione sia percorribile sul piano politico, in particolare per la Gran Bretagna. L’intero pacchetto brevettuale è infatti incontestabilmente permeato e condizionato dallo stretto rapporto che è destinato realizzare con l’ordinamento della UE, che ne è presupposto e condizione essenziale.

Lo confermano la stessa nozione del Tribunale UPC come “organo comune agli Stati” (art. 2), che come tale incontra gli stessi obblighi di qualsiasi organo giurisdizionale nazionale con riguardo all’applicazione del diritto UE, al rispetto del principio del primato (art. 20 TUB, nonché all’obbligo di “cooperare con la Corte di giustizia per garantire la corretta applicazione” del diritto UE, effettuando il rinvio pregiudiziale in presenza di un ragionevole dubbio sulla sua applicazione o interpretazione (art. 21 TUB). Sebbene l’obbligo di rinvio alla CGUE cada sulla divisione centrale e territoriale della UPC e non sul singolo giudice nazionale inglese, non darei per scontato che tale meccanismo sia bene accetto, soprattutto considerato che ogni decisione è obbligatoria per il giudice del rinvio.

Non di minore importanza è poi la disposizione che sancisce la responsabilità solidale degli Stati per le violazioni del diritto dell’Unione che siano compiute dalla corte d’appello dell’UPC (che avrà sede a Lussemburgo) e che causino un danno a individui (art. 22), ovvero che integrino gli estremi di un ricorso per infrazione (art. 23). Ai sensi di tali disposizioni, un’azione per il risarcimento danni è proposta contro lo Stato (solo se membro UE?) contraente in cui il ricorrente ha la sua residenza o sede principale. Il che significa che un soggetto che abbia residenza o sede in Gran Bretagna potrebbe citare tale Stato per sentirlo condannare a risarcire i danni subiti a causa di una sentenza adottata dalla corte d’appello dell’UPC e che sia stata in violazione del diritto UE. Più difficile è immaginare che la Gran Bretagna possa essere destinataria di un’azione di infrazione collettiva, promossa dalla Commissione nei confronti degli altri Stati. In tal caso potrebbe forse ravvisarsi una responsabilità economica solidale nei confronti degli altri Stati UE.

Se dunque una partecipazione della Gran Bretagna rebus sic stantibus non pare seriamente percorribile, più realistico potrebbe essere supporre che Gran Bretagna e Stati UE stipulino un distinto accordo che consenta, su nuove basi, la partecipazione della prima al sistema europeo.

Il fatto che, una volta uscita dall’Unione, la Gran Bretagna non sia tenuta ad applicare i regolamenti UE non è di per sé ostativo ad una sua partecipazione limitata all’accordo UPC.[13] Innanzitutto, non è da escludersi che la Gran Bretagna si impegni a applicare i regolamenti, non quale conseguenza di un obbligo UE che nei suoi confronti non sussisterebbe, ma di un impegno unilaterale liberamente assunto. Anche a prescindere da tale eventualità, comunque, il Tribunale unificato avrà – come noto – giurisdizione anche sul brevetto europeo così mantenendo la propria funzione e utilità.

Il contenuto di un tale accordo sarebbe evidentemente oggetto di negoziazione nel quadro più ampio delle trattative per la Brexit ed è possibile che esso costituisca un terreno fecondo di risultati, stante i rilevanti interessi economici in gioco, la forte lobby della comunità IP inglese, ma anche l’indubbio interesse della UE a coinvolgere un partner così importante in questo ambito.

Un punto delicato sarà evidentemente quello della competenza a stipulare tale accordo – se cioè sia della UE o dei singoli Stati membri, come avvenuto nel testo attuale. Da un lato, infatti, si tratterebbe di un accordo che non è destinato ad applicarsi a tutti gli Stati UE; dall’altro, però esso può incidere o alterare la portata di norme comuni, agli effetti dell’art. 216 TFUE. In tale contesto non deve sottovalutarsi come, in questo particolare momento storico, prediligere il piano della cooperazione intergovernativa potrebbe costituire un ulteriore momento di disgregazione della costruzione europea.

Al di là del contenuto delle singole disposizioni, poi, un nuovo accordo dovrebbe necessariamente prevedere una serie di disposizioni tali da delineare una situazione di soggezione alla Corte non dissimile da quella che ha condotto allo strappo di giugno. È impossibile prevedere oggi se la Gran Bretagna sia disponibile ad accettare, benché limitatamente all’ambito brevettuale, una situazione di tal genere. D’altra parte, altrettanto irrealistico sarebbe supporre che l’accordo UPC possa essere modificato nel senso di derogare a – o anche solo attenuare – quei caratteri che fungono da necessaria saldatura con il sistema giurisdizionale dell’Unione europea. Essi sono elementi sui quali la Corte di giustizia ha fortemente insistito e alla cui sussistenza ha condizionato il parere favorevole alla conclusione del trattato.[14]

Nonostante le difficoltà – procedurali, giuridiche e politiche – che si dovranno affrontare per giungere ad un nuovo trattato, va detto con altrettanta chiarezza che un nuovo accordo è necessario comunque, anche nell’ipotesi in cui la Gran Bretagna decida di uscire non solo dalla UE, ma anche dal sistema brevettuale, o meglio di non entrarvi affatto, dato che essa non ha ancora ratificato l’accordo UPC.

In verità, di fronte a questa eventualità occorrerebbe innanzitutto svolgere una approfondita riflessione, scevra da pregiudizi politici, sulla reale utilità di un sistema che ambisce ad essere unitario, ma dal quale stanno fuori Gran Bretagna e Spagna, due Stati che, per importanza economica e per rapporti con il resto del mondo, occupano un posto di assoluto rilievo sul piano internazionale. È sotto gli occhi di tutti, però, che la Commissione considera l’istituzione di un sistema di tutela brevettuale unitaria un obiettivo cruciale della propria agenda, tanto da essere disposta a qualsiasi compromesso pur di vederlo realizzato. Ipotizzando dunque la volontà politica di proseguire in quest’operazione nonostante l’assenza della Gran Bretagna, si affacciano altri profili problematici.

Il primo che ha occupato l’attenzione delle cancellerie all’indomani del referendum sulla Brexit è quello della sede della sezione della divisione centrale competente per le violazioni dei brevetti farmaceutici e chimici, come noto già istituita a Londra.

In proposito, le opzioni sembrerebbero essere due: la prima, apparentemente più semplice, prevede che le sezioni già individuate di Parigi e Monaco si facciano carico delle competenze della sezione londinese. La seconda, forse più plausibile sul piano diplomatico, contempla che la terza sezione venga spostata in altro Stato. In quest’ultimo caso verrebbe in rilievo la candidatura dell’Italia, con la città di Milano. La ratifica dell’Italia, in quanto Stato nel quale erano efficaci il terzo maggior numero di brevetti nel 2013, anno precedente la firma dell’accordo, è d’altra parte adesso necessaria – assieme a quella di Francia e Germania – per l’entrata in vigore dello stesso accordo. Le due cose potrebbero forse andare di pari passo. È invero molto probabile che il governo italiano avanzi una formale richiesta in tale senso (assieme alla sede dell’Agenzia del farmaco e dell’Autorità bancaria). Studi e rapporti per valutare l’impatto di una tale eventualità sono ad uno stadio abbastanza avanzato.[15]

Più in generale, però, e a prescindere dal problema logistico, non può tacersi come la Gran Bretagna abbia giocato un ruolo determinante nella negoziazione di tutti i passaggi costituenti il pacchetto brevettuale, coerentemente con il peso oggettivamente ricoperto da tale Stato nel settore brevettuale. Basti pensare alla sua influenza nel limitare la competenza della CGUE e nello spostare le norme relative alla nozione di contraffazione e ai limiti degli effetti di un brevetto (contenute negli artt. 5, 7 e 18 della proposta) nell’accordo (attuali artt. 25, 26 e 27 UPC), al fine di sottrarre tali cruciali disposizioni alla giurisdizione della Corte. Non è dunque da escludersi che l’uscita di scena di questo grande player, unita alla necessità di modificare il trattato, induca qualche Stato a rimettere in discussione alcune delle soluzioni già adottate, eventualmente anche in una prospettiva di maggiore integrazione.[16] Forse una prospettiva di tale genere non andrebbe trascurata e potrebbe essere l’occasione per porre rimedio a qualche passaggio che risente troppo della ricerca di un compromesso.

IV. Conclusioni: un interessante laboratorio scientifico, qualunque siano le prospettive applicative

Qualunque sia lo scenario immaginato, non vi è chi non veda come la Brexit renda la concreta praticabilità del pacchetto brevetti ancora più incerta e instabile di quanto già non fosse prima.

Ogni previsione quanto ad una sua prossima entrata in vigore appare oggi decisamente azzardata. Invero, l’unica circostanza certa è che alla data già prospettata per una sua probabile entrata in vigore, il sistema non sarà affatto pronto e che, questa volta, il rinvio sarà decisamente più lungo. La negoziazione di un nuovo trattato richiederà tempi lunghi e molte energie fresche, vanificando lo sforzo politico fatto da quegli Stati che avevano già ratificato l’accordo.

Nonostante questa conclusione apparentemente sconfortante, il sistema europeo di tutela brevettuale resta un tema di assoluto interesse e rilevanza. Al di là dei malauguranti eventi contingenti (e finanche delle reali prospettive di entrata in vigore!), il pacchetto brevetti costituisce un laboratorio scientifico-accademico che offre l’occasione di sperimentazioni estremamente interessanti e avanzate. Esso costituisce una incredibile palestra per la verifica e la messa a punto di nuovi strumenti, elaborati con spirito innovativo e con la ferma volontà di realizzare un comune obiettivo, che va nella direzione di meccanismi di integrazione differenziata con i quali – a quanto pare – occorrerà d’ora in avanti sempre più confrontarsi. Il segnale proveniente da molti Stati successivamente alla Brexit, apparentemente incuranti della limitata efficacia giuridica del loro atto, potrebbe essere interpretato come un forte segnale politico di credere ancora in questo ambizioso progetto e di voler dunque proseguire su tale strada.

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European Papers, Vol. 1, 2016, No 3, European Forum, Insight of 25 November 2016, pp. 1127-1136
ISSN
2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/87

* Professore ordinario di Diritto dell’Unione europea, Università di Milano-Bicocca, costanza.honorati@unimb.it.

[1] Alla data di oggi i Regolamenti si applicano a 26 Stati UE (tutti tranne Spagna e Croazia, quest’ultima non ancora parte dell’Unione alla data dell’apertura alla firma. Il nostro Paese, che aveva inizialmente rifiutato di partecipare, ha chiesto di partecipare alla cooperazione rafforzata in data 30 dicembre 2015, richiesta accolta con la decisione della Commissione n. 2015/1763). L’accordo UPC è stato firmato da 25 Stati (tutti tranne Spagna, Croazia e Polonia).

[2] Sulla differenza tra entrata in vigore e applicazione dei regolamenti UE, e sulla finalità di tale meccanismo volta a consentire a Stati membri e a istituzioni di adempiere gli obblighi preliminari ad essi incombenti che risultano indispensabili per la successiva piena applicazione dell’atto, v. Corte di giustizia, sentenza del 17 novembre 2011, causa C-412/10, Homawoo c. GMF Assurances (in particolare par. 20-26).

[3] Si veda infatti l’art. 18, par. 2, del regolamento 1257/2012, cit., che, derogando all’effetto tipico di un regolamento di porre norme uniformi per tutti i destinatari, dispone che un brevetto europeo ad effetto unitario produce i suoi effetti “solo negli Stati membri partecipanti nei quali il tribunale unificato dei brevetti abbia giurisdizione esclusiva in materia di brevetti europei alla data della registrazione”. Ciò dunque postula innanzitutto l’entrata in vigore dell’accordo sul Tribunale e, in secondo luogo che, in relazione al brevetto in oggetto, non sia stata fatta la dichiarazione di opting-out di cui all’art. 83, par. 3, dell’accordo UPC.

[4] Limitando il riferimento ad alcune opere generali, oltre a quelle citate alla nota successiva, v. M. Scuffi, Il brevetto europeo con effetto unitario e l’Unified Patent Court, in Il diritto industriale, 2013, p. 156 et seq.; C. Geiger (ed.), Quel droit des brevets pour l’Union européenne? What Patent Law for the European Union?, Paris: Litec, 2013; G. Caggiano, Il pacchetto normativo sul brevetto europeo unitario tra esigenze di un nuovo sistema di tutela, profili di illegittimità delle proposte in discussione e impasse istituzionale, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2012, p. 683 et seq.; S. Luginbühl, Das europäische Patent mit einheitlicher Wirkung (Einheitspatent), in Gewerblicher Rechtsschutz und Urheberrecht, Internationaler Teil, 2013, p. 305 et seq. Sia poi consentito rinviare, anche per ulteriore bibliografia, a C. Honorati (a cura di), Luci e ombre del nuovo sistema UE di tutela brevettuale, Torino: Giappichelli, 2013.

[5] Basta qui ricordare la presa di posizione del Max-Planck Insitut di Monaco, sintetizzata nello scritto di R. Hilty, Th. Jaeger, M. Lamping, H. Ullrich, The Unitary Patent Package: Twelve Reasons for Concern, in Max Planck Institute for Intellectual Property & Competition Law, 17 October 2012; M. Brandi-Dohrn, Some Critical Observations on Competence and Procedure of the Unified Patent Court, in International Review of Intellectual Property and Competition Law, 2012, p. 372 et seq.; F. De Visscher, European Unified Patent Court: Another More Realistic and More Equitable Approach Should be Examined, in GRUR International, 2012, p. 214 et seq. Nella dottrina italiana, si vedano G. Floridia, Il brevetto unitario: cui prodest?, in Il diritto industriale, 2013, p. 1 et seq.; P. Gelato, F. Lala, Brevetto unitario per l'Europa o brevetto europeo (con effetto) unitario? Nodi giuridici e linguistici nella prospettiva italiana, in Contratto e impresa. Europa, 2012, p. 516 et seq.

[6] Se ne legga la notizia sul sito bristowsupc.com.

[7] Il ricorso, promosso dall’Italia assieme alla Spagna, è stato rigettato; v. Corte di giustizia, sentenza del 16 aprile 2013, cause riunite C-274/11 e C-295/11, Spagna e Italia c. Consiglio.

[8] In particolare le Commissioni X (attività produttive, commercio e turismo) e XIV (politiche dell’Unione europea) della Camera dei deputati, che il 23 giugno 2015 hanno adottato la risoluzione n. 8-00122, che impegna il Governo “a procedere all’adesione italiana alla cooperazione rafforzata relativa al brevetto unitario dell’Unione europea, allo scopo di sostenere la competitività delle imprese italiane sui mercati europei e internazionali”.

[10] Si tratta di una bella valorizzazione degli spazi adiacenti ai vecchi Chiostri di San Barnaba, in via San Barnaba 50. Se ne veda la notizia sul sito ufficiale della UPC, www.unified-patent-court.org, dove si sottolinea anche l’ampiezza della sede (poco meno di 900 mq). Merita anche di sottolineare che, allo stato attuale, non sono molti gli Stati che hanno individuato sedi dell’UPC: sebbene la Germania ne abbia ben cinque regionali (oltre a quella centrale a Monaco), oltre a Gran Bretagna e Lussemburgo (che ospitano rispettivamente l’altra sede centrale e la corte d’appello), solo la Svezia sembra avere provveduto.

[11] Tra le numerose ragioni che sono state addotte per indicare nella primavera 2017 la data ultima per la notifica ai sensi dell’art. 50 TUE, ci pare che la più probabile pare doversi rinvenire non tanto nella ricorrenza della firma del trattato di Roma, quanto nel fatto che a partire dal giugno 2016 decorre il semestre di presidenza europea della Gran Bretagna, avrebbe dovuto assumere la presidenza del Consiglio.

[12] È la tesi sostenuta da W. Tilmann, EPUE-Reg and UPCA after Brexit, in EPLAW Patent Blog, 27 June 2016. Poiché l’art. 84 UPC richiede che l’accordo sia firmato da uno Stato UE, ma nulla dice sullo status di uno Stato che, pur avendo firmato nel rispetto di tale requisito, sia poi uscito dalla UE, il requisito formale risulterebbe sostanzialmente rispettato.

[13] È questa, d’altra parte, la posizione in cui si trovava l’Italia all’origine. Questa infatti aveva firmato l’accordo già alla sua apertura alla firma nel 2013, mentre ha aderito alla cooperazione rafforzata solo in forza della decisione del 2015.

[14] Vedi Corte di giustizia, parere 1/13 del 14 ottobre 2014.

[15] Si veda ad esempio la lettera inviata dal Presidente dell’Ordine dei Consulenti in Proprietà Industriale al Presidente del Consiglio italiano con la quale si sollecita la candidatura dell’Italia a sede della divisione centrale, sottolineando, tra l’altro, come l’Italia sia tra i primissimi Paesi della UE per numero di domande di brevetto europeo, marchi EU e design EU, ma come, ciò nonostante, non abbia alcuna sede di istituzioni europee nel settore della proprietà industriale (laddove sedi importanti si trovano in ben dieci altri Paesi europei). La lettera è scaricabile al link www.ordine-brevetti.it. Inizialmente era stata ventilata anche l’ipotesi di una candidatura dei Paesi Bassi, che non pare tuttavia avere avuto seguito.

[16] Si veda ad esempio la posizione espressa da A. Strowel, F. de Visscher, V. Cassiers, L’unione non può essere privata dei suoi poteri da parte degli stati membri: il pericoloso precedente del pacchetto brevetti, in Il diritto industriale, 2015, p. 221 (dove si lamenta “[…] la pressione di alcune lobby che hanno cercato di ottenere che il diritto sostanziale dei brevetti venisse rimosso dalla legislatura dell’Unione” e spostato in un accordo internazionale, così però privando l’Unione dei propri poteri. Tale risultato sarebbe, a dire di tali Autori, inaccettabile e acconsentirvi in ambito brevettuale “significherebbe aprire la porta ad altri aggiramenti del diritto dell’UE”. Il regolamento (artt. 5, 7 e 18) si astiene in realtà dalla regolazione del diritto sostanziale dei brevetti con effetto unitario. Per mezzo di un riferimento al diritto nazionale, ha disciplinato la questione tramite l’Accordo su un Tribunale unificato dei brevetti (Accordo UPC), un trattato internazionale firmato da alcuni Stati membri, i cui artt. da 25 a 27 stabiliscono le norme che definiscono il campo di applicazione dei brevetti europei (violazione diretta e indiretta) e i limiti ad essi relativi.

 

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