Sui rapporti tra Carte e Corti: nuovi sviluppi nella ricerca di un sistema rapido ed efficace di tutela dei diritti fondamentali

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Abstract: This Insight deals with the recent case-law of the Italian courts regarding the relationship between domestic and Community rules on fundamental rights, taking into account in particular the substantial and procedural problems that arise when a law is suspected to violate both the Charter of the Fundamental Rights of the EU and the Italian Constitution. After an analysis of the most recent rulings of the Italian Constitutional Court on this subject, it focuses critically on the initiative, taken by a court of appeal, to adopt simultaneously two different orders of referral to the Court of Justice and the Constitutional Court on the same matter, thus creating a difficult situation to manage by both Courts. Finally, this article suggests that the best solution to prevent conflicts among the various actors can only start form a revaluation of the role of the national judge as “juge de droit commun du droit de l’Union européenne”.

Keywords: Charter of Fundamental Rights of the EU – national constitutions – Italian Constitutional Court – supremacy clause – national courts – principle of proximity.
 

I. Introduzione: il quadro è chiaro… ma non troppo

A partire dalla pubblicazione della oramai notissima e pluri-commentata sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017, numerosi sono stati gli episodi del lungo e tormentato processo di ricerca di un nuovo equilibrio tra i rispettivi ruoli dei giudici comuni, della stessa Consulta e della Corte di giustizia in presenza di un sospetto contrasto tra una legge interna e un diritto fondamentale tutelato sia dalla Costituzione nazionale, sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Come è stato correttamente osservato[1], sul versante della giurisprudenza costituzionale le precisazioni fornite dalle pronunce più recenti, ed in particolare dalle sentenze nn. 20, 63 e 112 del 2019 e dall’ordinanza n. 117 dello stesso anno, pur senza smentire del tutto il punto di partenza, hanno senza dubbio fornito una serie di precisazioni tali da rendere il quadro più chiaro rispetto alla inattesa e per vari aspetti discutibile[2] novità rappresentata dall’obiter dictum contenuto nella sentenza prima citata.

In estrema sintesi, il nuovo quadro disegnato dalla Consulta riconosce che, in presenza di una legge sospettata di confliggere sia con regole della Carta direttamente efficaci,[3] sia con norme della Costituzione, il giudice comune detiene uno spazio di discrezionalità nella scelta tra seguire il percorso europeo o quello interno:[4] nel primo caso procederà alla immediata disapplicazione della legge, se necessario previo coinvolgimento della Corte di giustizia attraverso il rinvio pregiudiziale; nel secondo caso, si rivolgerà alla Corte costituzionale per ottenere un giudizio sulla legge in base ai parametri interni e/o comunitari, in quest’ultimo caso “interposti” attraverso gli art. 11 e 117 della Costituzione.[5] A differenza del primo percorso,[6] il secondo può comportare l’eliminazione erga omnes della legge anti-comunitaria. Peraltro, qualunque sia la scelta effettuata, non è escluso che le due strade si intreccino successivamente, in quanto la Corte di giustizia potrebbe essere chiamata a svolgere un giudizio sui risultati raggiunti dalla Corte costituzionale, potendo in ipotesi rimetterlo in discussione.[7] Specularmente, la pronuncia della Corte di giustizia, se ritenuta non conforme con principi supremi dell’ordinamento o con alcuni standard incomprimibili di tutela dei diritti dell’uomo imposti dal testo costituzionale, potrebbe motivare la Corte costituzionale ad azionare la leva dei controlimiti per evitare che la norma europea, come interpretata, possa produrre effetti nell’ordinamento interno.[8]

Sull’altro versante, la Corte di giustizia dell’Unione, nel suo ruolo, conferito dai Trattati e quindi dagli Stati membri, di garante del rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto dell’Unione (art. 19 TUE), non ha mancato occasione per ricordare sia l’importanza del principio della supremazia del diritto dell’Unione europea, con il corollario del potere/dovere in capo al giudice nazionale di disapplicare le regole legislative nazionali in caso di insanabile conflitto con norme dell’Unione dotate di diretta efficacia,[9] comprese quelle della Carta,[10] sia il ruolo determinante della procedura di rinvio pregiudiziale per la corretta interpretazione del diritto dell’Unione, al punto di chiedere sistematicamente al giudice nazionale di non riconoscere efficacia alle regole processuali che dovessero mettere in discussione la facoltà o l’obbligo di rivolgere quesiti pregiudiziali alla Corte di giustizia.[11] Il tutto con l’obiettivo di garantire uniformità e contestualità nell’applicazione del diritto dell’Unione negli Stati membri e quindi consolidare l’autonomia dell’ordinamento creato dai Trattati e la posizione di parità che tutti gli Stati rivestono di fronte agli stessi.[12] Allo stesso tempo, in materia di tutela dei diritti fondamentali la Corte ha riconosciuto un margine di manovra ai sistemi nazionali, ogni qual volta la disciplina di una fattispecie non sia determinata totalmente dal diritto dell’Unione:[13] in questo caso le regole costituzionali nazionali ed i sistemi di tutela che gli ordinamenti interni contemplano per valutare la costituzionalità delle leggi possono venire in rilievo e trovare applicazione nonostante il legislatore sia intervenuto “nell’attuazione del diritto dell’Unione”, ma con il caveat che il risultato raggiunto all’esito di questa valutazione non sia tale da mettere in discussione il livello di tutela previsto dalla Carta come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Come chiarito dalla Corte di giustizia al par. 29 della sentenza Fransson,[14] “quando un giudice di uno Stato membro sia chiamato a verificare la conformità ai diritti fondamentali di una disposizione o di un provvedimento nazionale che, in una situazione in cui l’operato degli Stati membri non è del tutto determinato dal diritto dell’Unione, attua tale diritto ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione”.

Se questo è, in estrema sintesi, il quadro generale, va aggiunto che rimangono alcuni aspetti non ancora chiariti in merito ai rispettivi ruoli degli attori coinvolti, con la conseguenza che i principali protagonisti dell’intero meccanismo – i giudici comuni – incontrano tuttora alcune difficoltà nelle scelte da compiere.

Per averne contezza, può essere utile far riferimento, sul versante interno, ad alcune pronunce recentissime. Mi riferisco, innanzitutto, a due sentenze della Corte costituzionale adottate nei primi mesi dell’anno in corso: si tratta della sentenza n. 11 del 2020, con la quale la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da un collegio arbitrale nei confronti della nuova disciplina delle incompatibilità tra partecipazione a società di capitali che operano nel settore farmaceutico ed impiego pubblico,[15] e della sentenza n. 44 del 2020, con la quale la Corte ha invece risposto in maniera positiva ai dubbi espressi dal Tribunale di Milano in merito all’illegittimità di una legge della regione Lombardia in materia di accesso all’edilizia residenziale pubblica.[16] Ma soprattutto merita una segnalazione, nella medesima ottica, l’iniziativa assunta dalla Corte d’Appello di Napoli il 18 settembre 2019 di adottare due ordinanze parallele di rimessione alla Corte di giustizia ed alla Corte costituzionale secondo una lettura – inedita nella prassi recente ma già emersa in alcuni contributi dottrinali[17] – della c.d. “doppia pregiudizialità” nel senso di ritenere che i due “percorsi” prima ricordati possano essere intrapresi in maniera contemporanea.

Come si cercherà di dimostrare, per quanto apparentemente distanti, queste pronunce, in uno con il tutt’altro che sopito dibattito dottrinale sul tema,[18] sollecitano una riflessione sulla necessità di una presa di posizione più chiara dell’organo di vertice, in maniera da meglio orientare i comportamenti dei giudici comuni. Dopo una rapida esposizione del contenuto delle sentenze e delle ordinanze, in questo breve contributo si proverà ad indicare una possibile soluzione – peraltro già rintracciabile in filigrana nella recente giurisprudenza costituzionale – che tenga in considerazione da un lato, la giurisprudenza della Corte di giustizia, dall’altro, le esigenze di coinvolgimento che (peraltro non da sola)[19] la nostra Corte costituzionale sta da tempo manifestando a partire dalla sentenza n. 269 del 2017.

II. Le più recenti pronunce della Corte costituzionale: la sentenza n. 11 del 2020

La prima delle decisioni che meritano un approfondimento è la sentenza della Corte costituzionale n. 11 del 2020. Si tratta di una pronuncia di infondatezza riguardante l’art. 8, comma 1, lettera c), della legge 8 novembre 1991, n. 362 (Norme di riordino del settore farmaceutico), in relazione all’art. 7, comma 1, della stessa legge, come modificato dall’art. 1, comma 157, lettera a), della legge 4 agosto 2017, n. 124 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza). A giudizio dell’organo remittente (un collegio arbitrale rituale), la nuova disciplina su richiamata poneva dubbi di legittimità costituzionale in quanto, nell’interpretazione offerta nell’ordinanza, estendeva la causa di incompatibilità tra la partecipazione alle società di capitali e un qualsiasi rapporto di lavoro pubblico o privato non solo alle persone fisiche e ai soci di società di persone che siano titolari o gestori di farmacie private, ma anche ai soci di società di capitali che acquisiscano le farmacie senza rivestire compiti di gestione. Una tale disciplina violerebbe non solo principi costituzionali interni (art. 2, 3, 4, 35, 41, 47), ma anche, per il tramite degli art. 11 e 117 Cost., alcune disposizioni del diritto dell’Unione, tra cui l’art. 3 del TUE e soprattutto, per quello che qui interessa, l’art. 16 della Carta (libertà d’impresa) e l’art. 49 del TFUE (libertà di stabilimento) in ragione del preteso vulnus arrecato alla libera iniziativa economica.

La Corte conclude nel senso della infondatezza della questione di legittimità costituzionale grazie ad una lettura diversa del dato normativo, capace di escludere la paventata estensione della regola di incompatibilità.[20] Tuttavia, quello che qui maggiormente interessa è rilevare che, prima di giungere alla conclusione ora richiamata, la Corte ha dovuto rispondere all’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura dello Stato con riferimento ai parametri europei, ritenuti erroneamente invocati perché le norme interposte, in quanto dotate di effetto diretto, avrebbero dovuto essere applicate direttamente dal rimettente. La Corte supera questa eccezione[21] riprendendo quanto già affermato da ultimo nella sentenza n. 63 del 2019, ribadendo cioè che qualora il giudice comune ritenga, nell’ambito di un incidente di costituzionalità di richiamare, come norme interposte, disposizioni dell’Unione europea attinenti, nella sostanza, ai medesimi diritti tutelati da parametri interni, “questa Corte non potrà esimersi, eventualmente previo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, dal fornire una risposta a tale questione con gli strumenti che le sono propri: strumenti tra i quali si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), con conseguente eliminazione dall’ordinamento, con effetti erga omnes, di tale disposizione”.

Nella fattispecie – continua la Corte – “non vi è dubbio che le ragioni addotte a sostegno della lamentata lesione delle citate disposizioni dell’Unione europea interferiscano con il valore costituzionale della libertà dell’iniziativa economica privata”.

Come si vede, la Corte risponde all’eccezione rimanendo nel solco della soluzione già offerta nella sua più recente giurisprudenza, nel senso cioè di valorizzare la scelta operata dal giudice comune in presenza di un preteso contrasto tra una norma interna e regole dell’Unione europea dotate di diretta efficacia. Se il giudice, nonostante abbia sempre a disposizione, come precisato dalla Consulta correggendo la posizione sostenuta nella sentenza n. 269 del 2017, il rimedio della immediata disapplicazione, ritiene di sottoporre detto contrasto alla Corte costituzionale per ottenere una pronuncia con effetto erga omnes, questa scelta non viene più sanzionata con l’inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale (“qlc”).[22] La Corte procederà invece, previo eventuale rinvio pregiudiziale (come avvenuto nel caso dell’ordinanza n. 117 del 2019), a decidere nel merito utilizzando sia i parametri interni, sia quelli europei, “secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato”.[23]

Su quest’ultimo aspetto, probabilmente il più complesso in questa fase, torneremo più avanti. Al momento, ci limitiamo a svolgere alcune brevi osservazioni rispetto alla soluzione raggiunta nella sentenza n. 11 del 2020. In primo luogo, va rilevato che l’affermazione della Corte, per cui le ragioni addotte a sostegno della lamentata lesione delle citate disposizioni del diritto dell’Unione interferiscono con il valore costituzionale della libertà d’iniziativa economica privata, omettono una verifica che, sempre in tema di rilevanza, avrebbe potuto portare a conseguenze diverse. Mi riferisco alla circostanza che la regola sostanziale di diritto dell’Unione europea invocata, l’art. 49 TFUE in tema di libertà di stabilimento, sembra tutt’altro che pacificamente applicabile nella fattispecie sottoposta al giudizio arbitrale a quo: essa infatti riguardava quella che nel linguaggio comunitario viene definita “situazione meramente interna” ,[24] in cui tutti gli elementi sono confinati all’interno del territorio nazionale. L’assenza di elementi transfrontalieri comporta che, in linea di principio, non emerge alcun ostacolo allo stabilimento del soggetto in questione in uno Stato diverso da quello di origine, unico problema di cui si occupa l’art. 49 TFUE. L’assenza di rilevanza comunitaria della fattispecie porta con sé, come noto, l’estraneità della Carta dei diritti fondamentali, testo che può assumere rilievo per la valutazione delle normative nazionali soltanto qualora lo Stato operi nel campo di applicazione del diritto dell’Unione.[25]

Si tratta comunque di aspetti secondari, meritevoli di essere menzionati in questa sede soltanto perché dimostrano ancora una non totale dimestichezza degli organi remittenti sull’ambito di applicazione del diritto dell’Unione e quindi della Carta. Peraltro, non è escluso che il problema della estraneità dell’art. 49 TFUE rispetto alle fattispecie portata all’attenzione della Corte sarebbe emerso successivamente, qualora la Corte avesse inteso affrontare la questione della compatibilità comunitaria della legge impugnata.

Più serie sarebbero invece le conseguenze di un’interpretazione, avanzata in dottrina,[26] delle brevi frasi della Corte su ricordate, nel senso di ritenerle indicative della volontà della Corte di estendere il “modello 269” – pur rivisto nel senso di considerare il ricorso alla Corte costituzionale come alternativo, e non più sostitutivo, rispetto alla disapplicazione della legge interna contrastante – come sistema generale, tale cioè da coinvolgere non solo i casi (da cui quell’obiter aveva preso spunto ed ai quali in quell’occasione la Corte si riferiva esplicitamente) in cui una legge interna sia sospettata di contrastare con un diritto fondamentale tutelato sia dalla Carta, sia da un articolo della Costituzione, ma tutti i casi in cui una regola di diritto dell’Unione, in qualsiasi fonte inserita, interferisca con un diritto costituzionalmente garantito. La conseguenza, secondo questa lettura, sarebbe aprire le porte alla possibilità per un giudice di non procedere alla immediata disapplicazione della legge incompatibile con il diritto dell’Unione “a prescindere dalla norma europea interposta invocata”,[27] quindi anche qualora non vi sia una sovrapposizione tra le tutele fornite dalla Carta e dalla Costituzione nazionale.

Due brevi osservazioni in merito a questa conclusione: in primo luogo, qualora fosse questa la volontà della Consulta, essa rischierebbe di porsi in frontale contrasto con la giurisprudenza comunitaria, in quanto la Corte di giustizia continua a sostenere la validità del “principio Simmenthal”, secondo il quale: a) una delle ineludibili caratteristiche di base dell’ordinamento dell’Unione è il riconoscimento del potere, in capo al giudice comune, di procedere alla immediata disapplicazione di una legge interna incompatibile con una norma del diritto dell’Unione direttamente efficace, comprese le disposizioni della Carta quando presentano le caratteristiche necessarie per produrre effetti diretti; b) questo potere, in quanto finalizzato sia a fornire una tutela piena ed immediata ai soggetti coinvolti, sia a garantire una uniforme e contestuale applicazione del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri, non può essere limitato o condizionato da qualsiasi meccanismo interno che affidi ad un soggetto diverso, che si tratti del legislatore o della Corte costituzionale, il compito di privare di efficacia la legge interna, abrogandola o dichiarandola costituzionalmente illegittima.

Detto ciò, è noto che tracce di questa tendenza espansiva del “nuovo modello” si sono già immediatamente intraviste nella giurisprudenza successiva alla sentenza n. 269 del 2017, come nel caso della sentenza n. 20 del 2019, concernente un conflitto tra fonti che coinvolgeva non soltanto la Carta (nella fattispecie, l’art. 8), ma anche una direttiva[28] intesa dalla Corte come “in singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE”.[29] Tuttavia, le motivazioni addotte anche in quel caso per giustificare una rilettura/revisione della giurisprudenza Granital erano tutte nella direzione di consentire alla Corte costituzionale di partecipare in maniera diretta al processo di costruzione del patrimonio costituzionale europeo, volontà che non poteva essere condizionata dalla presenza di disposizioni di diritto derivato per le quali, peraltro, il giudice remittente aveva escluso (a mio modo di vedere in maniera discutibile)[30] la capacità di produrre effetti immediati nel procedimento a quo.

Ora, abbandonare questo collegamento per “svincolare” il nuovo orientamento dal necessario riferimento alla Carta avrebbe come conseguenza smentire le stesse premesse del “nuovo modello”. È appena il caso di ricordare che quando la Corte è arrivata, nella sentenza n. 269 del 2017, alla conclusione per cui, “laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale”, ciò è avvenuto in quanto, secondo la Consulta, “occorre prendere atto che la citata Carta dei diritti costituisce parte del diritto dell’Unione dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale”. Tanto è vero che, rispetto alle regole di diritto dell’Unione di diversa origine restano fermi “i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea come sin qui consolidatisi nella giurisprudenza europea e costituzionale”. Una diversa soluzione, a parte la sua palese contraddittorietà con principi di base dell’ordinamento dell’Unione, avrebbe certamente necessitato di una presa di posizione più chiara ed argomentata.

Ed infatti, ed è questa la seconda osservazione, non sono convinto che la lettura proposta sia corretta. Come detto, dal testo della sentenza e dalla lettura dell’ordinanza di rimessione emerge che il collegio arbitrale, nell’indicare i parametri interposti di costituzionalità rilevanti ai fini degli art. 11 e 117 Cost., si era riferito sia all’art. 49 del TFUE, sia all’art. 16 della Carta, in tema di libertà di impresa. Quindi, prescindendo ora dalla pertinenza del richiamo alla regola sul mercato interno, non è da escludere (anzi, pare del tutto probabile) che quando la Corte si riferisce al richiamo, da parte del giudice a quo, dei “medesimi diritti tutelati da parametri interni” (par. 3.4. del Considerando in diritto) come norme interposte, detto riferimento debba essere inteso come rivolto alla Carta piuttosto che alla disposizione del Trattato. Ancora più chiara è la parte successiva del medesimo paragrafo, in cui la Corte richiama testualmente la sentenza n. 63 del 2019 per confermare di avere a disposizione, se a ciò richiesta dal giudice comune, lo strumento della “dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta”.

Per concludere sul punto, mi pare che la sentenza non aggiunga nulla di nuovo rispetto alla posizione oramai in via di consolidamento, per cui in presenza di una legge sospettata di produrre un vulnus sia ad una norma della Carta, sia ad una norma costituzionale, il giudice comune abbia a disposizione due strade: da un lato, se le condizioni richieste dall’ordinamento comunitario lo consentono, procedere alla immediata disapplicazione della legge interna, se necessario previo coinvolgimento della Corte di giustizia; dall’altro, assunte eventualmente le misure cautelari opportune, rivolgersi alla Corte costituzionale ai fini di un intervento erga omnes nei confronti della legge dichiarata incostituzionale. Nell’ultima parte di questo lavoro proveremo ad occuparci della questione – molto dibattuta di recente – della cumulabilità o meno di questi due rimedi.

Ciò detto, non può nascondersi che sarebbe illusorio (e frutto di un non condivisibile ma purtroppo diffuso tentativo di distinguere tra l’approccio “mercantilistico” delle regole di diritto sostanziale dell’Unione e la “novità” rappresentata dalla Carta) pretendere di porre una netta e da questo punto di vista “rassicurante” linea di demarcazione tra il campo di applicazione della Carta, da un lato, e le regole di diritto primario o secondario dell’Unione, dall’altro. Tutto al contrario, i due elementi sono inscindibili perché, come già ricordato, la Carta non può trovare applicazione se non come “ombra” che accompagna una regola di diritto sostanziale dell’Unione.[31] Da ciò consegue che, qualora si tratti di valutare la conformità di una legge interna alla Carta, questa operazione presuppone che l’attività legislativa nazionale si sia svolta in sede di “attuazione” del diritto dell’Unione, nel significato ampio che questa locuzione ha ricevuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in continuità con la prassi pre-Carta[32].

In concreto, non è certo complicato in molti casi “aggiungere” una norma della Carta ad una regola di diritto sostanziale dell’Unione, in maniera che entrambe possano essere invocate come parametro interposto di costituzionalità della regola interna coinvolta. Il caso affrontato dalla sentenza n. 20 del 2019 va in questa direzione, ed anche nella situazione oggetto della sentenza n. 11 del 2020 – qualora si fosse trattato davvero di una fattispecie coperta dal diritto dell’Unione – l’aggiunta dell’art. 16 della Carta all’art. 49 TFUE anche a fini di rafforzamento del parametro appare operazione tutt’altro che peregrina, in quanto la libertà di stabilimento è certamente (anche) espressione della libertà di impresa di cui si occupa l’art. 16 della Carta.[33] Ma se la conseguenza di questa – peraltro alquanto ovvia – premessa fosse quella di spostare del tutto l’asse dell’analisi sullo scrutinio costituzionale, allora l’allontanamento dalla dottrina Simmenthal e l’equiparazione dei trattati dell’Unione a qualsiasi altra fonte pattizia internazionale sarebbe pressoché completo.

Si pensi, per fare solo un esempio teorico, ad un caso di asserita discriminazione per motivi religiosi prodotta da una normativa nazionale: come è noto, il divieto di trattamenti discriminatori in base alla religione o alle convinzioni personali trova fondamento sia nell’art. 21, par. 1, della Carta, sia, con specifico riferimento ai rapporti di lavoro, nella direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In diverse occasioni, tra le quali la sentenza Egenberger del 2018,[34] la Corte di giustizia, richiamando suoi precedenti riguardanti i principi di parità di retribuzione e di non discriminazione in base all’età,[35] ha precisato che la direttiva non sancisce essa stessa il principio di non discriminazione in base (anche) alla religione, ma si limita a fornire un quadro generale di lotta alle discriminazioni. Il divieto in questione riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione, oggi codificato nell’art. 21 della Carta, e grazie all’intervento della direttiva diviene parametro di valutazione dell’attività del legislatore nazionale, potendo essere invocato sia nei rapporti “verticali” sia in quelli “orizzontali”. Come chiarito nella medesima sentenza, il divieto sancito all’art. 21 della Carta “è di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale in una controversia che li vede opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione”.

Sul versante nazionale, il divieto di trattamenti discriminatori sulla base delle convinzioni religiose è espressamente codificato all’art. 3, comma 1, della Costituzione. All’evidenza, l’attività del legislatore nazionale, se interviene, come in questo caso, nel campo di applicazione del diritto europeo, può essere oggetto di valutazione sia in rapporto alle regole europee, sia ai vincoli costituzionali.

Immaginiamo ora che un soggetto invochi il diritto comunitario in un contenzioso nazionale per opporsi agli effetti applicativi di una legge che produce questa presunta discriminazione: all’evidenza, la risposta del giudice a questa richiesta non può cambiare a seconda che tra i parametri invocati vi sia soltanto la direttiva (nel qual caso potrà procedere alla immediata disapplicazione della legge) o anche l’art. 21 della Carta (nel qual caso si giustificherebbe la scelta, sia pure non più necessaria secondo il più recente orientamento della Consulta, di rivolgersi alla Corte costituzionale). Tuttavia, una volta aperta la strada del coinvolgimento della Corte costituzionale anche nei casi di conflitto tra leggi interne e norme europee dotate di efficacia diretta, come quelle appena citate, diventa obiettivamente difficile porre un argine all’allargamento delle ipotesi in cui il “nuovo corso” della giurisprudenza della Corte può trovare applicazione.

Alla luce di quanto appena osservato, credo sia più utile chiedersi se il nuovo approccio della Corte costituzionale inaugurato con la sentenza n. 269 del 2017, anche dopo le certamente condivisibili precisazioni operate con la giurisprudenza successiva, sia esso stesso la causa della confusione e quali correzioni possano essere suggerite per arrivare ad un sistema più facilmente gestibile da tutti gli attori coinvolti.

III. Segue: la sentenza n. 44 del 2020

La seconda pronuncia della Corte costituzionale che merita di essere brevemente richiamata è la numero 44 del 2020, con la quale la Consulta, nel solco di precedenti pronunce tra cui la sentenza n. 168 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 12, lettera b), della legge della Regione Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (Disciplina regionale dei servizi abitativi), in quanto la disciplina regionale subordina l’accesso ai servizi abitativi pubblici al requisito della: “residenza anagrafica o svolgimento di attività lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda”. La questione veniva sollevata non in un giudizio in via principale, come avvenuto in altre note occasioni riguardanti disposizioni regionali di simile contenuto,[36] ma in via incidentale dal Tribunale di Milano, a seguito di un ricorso presentato da un cittadino extracomunitario, dalla CGIL Lombardia e da altre associazioni attraverso l’azione anti-discriminazione di cui all’art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

Nell’ordinanza di rimessione, il Tribunale sottoponeva alla Corte diversi parametri costituzionali, tra cui l’art. 3 Cost, primo e secondo comma, e l’art. 117 Cost, con riferimento – come “parametro interposto” – all’art. 11 della direttiva 2003/109/CE del Consiglio del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo[37]. Quanto al diritto dell’Unione, il giudice a quo riteneva che il requisito di un periodo quinquennale di residenza o di lavoro nel territorio della Regione potesse essere in contrasto con il par. 1 della citata disposizione comunitaria, nella parte in cui dispone che “[i]l soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: […] f) l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all’erogazione degli stessi, nonché alla procedura per l’ottenimento di un alloggio”. A parere del rimettente, la norma censurata non sarebbe giustificata alla luce né della clausola di deroga di cui al par. 2 del medesimo art. 11, né del principio di proporzionalità, in quanto la residenza ultraquinquennale è presupposto di ammissione al beneficio e non criterio di preferenza. Alla luce di una cospicua giurisprudenza europea, sosteneva inoltre che il fatto che la norma de qua discrimini anche i cittadini italiani non residenti in Lombardia da più di cinque anni non sarebbe rilevante ai fini della conformità al diritto europeo. In definitiva, la norma censurata determinerebbe “un’irragionevole discriminazione” con riferimento agli stranieri soggiornanti di lungo periodo, in violazione dell’art. 11, par. 1, lettera f), della direttiva 2003/109/CE.

Il richiamo alla sola direttiva non rende la fattispecie estranea al nostro discorso, in quanto notoriamente l’accesso ai vantaggi dell’edilizia pubblica rientra a pieno titolo tra i diritti all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa che l’art. 34 della Carta riconosce a “tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti”.

Rispetto alla violazione dell’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione, la stessa veniva invocata sotto plurimi profili, tra cui il contrasto tra la configurazione della residenza (o dell’occupazione) protratta come condizione dirimente per l’accesso ai benefici pubblici e la vocazione sociale propria dell’esigenza di abitazione, nonché la violazione del principio di ragionevolezza, in quanto non esisterebbe alcuna correlazione tra la durata della residenza ed il disagio economico sofferto dal soggetto richiedente.

Nella sentenza i parametri europei non vengono esplorati: se pure non manca un riferimento all’art. 34 della Carta (ripreso dal testo della sentenza 168 del 2014) per rafforzare la premessa per cui l’edilizia residenziale pubblica è diretta ad assicurare il concreto soddisfacimento del bisogno primario consistente nel diritto all’abitazione per coloro che non dispongono di risorse sufficienti, la questione è affrontata e risolta sulla base del solo art. 3 della Costituzione. La Corte arriva infatti alla conclusione per cui l’art. 22, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016, nella parte in cui fissa il requisito della residenza (o dell’occupazione) ultraquinquennale in regione come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, “contrasta sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché produce una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non ne sia in possesso, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, comma 2, Cost., perché tale requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica”.

Il cambio di approccio, peraltro già anticipato da precedenti pronunce quale la n. 166 del 2018[38] rispetto al precedente del 2014 è palese, ed è frutto anche della diversa valutazione operata dal giudice remittente nell’indicazione del parametro di costituzionalità.

Per incidens, dalla ricostruzione in fatto emerge che il giudice rimettente aveva escluso di poter procedere alla diretta disapplicazione della legge regionale non perché convinto di allinearsi al nuovo corso della giurisprudenza costituzionale,[39] ma in ragione di una – a nostro parere non corretta – valutazione negativa sulla diretta efficacia della norma della direttiva[40].

Anche in questo caso, quindi, pur avendo a disposizione entrambe le strade, la Corte ha preferito percorrere quella interna in una fattispecie che di certo ricadeva (anche) nel campo di applicazione del diritto sostanziale dell’Unione e quindi della Carta. Lo ha fatto, tuttavia, preoccupandosi di rinforzare questa scelta alla luce delle regole della Carta, se pure in maniera meno approfondita e articolata rispetto a precedenti occasioni, tentando così di evitare in radice l’emersione di successivi problemi di coordinamento tra la soluzione raggiunta in base al parametro interno e quella ricavabile dalla Carta.

Per i motivi anzidetti, mi sembra anche in questo caso forzata una lettura[41] nel senso di intendere anche la sentenza n. 44 del 2020 riconducibile al filone giurisprudenziale che vedrebbe la Corte costituzionale estendere il “modello 269” anche a regole di diritto dell’Unione direttamente efficaci diverse dalla Carta. Ciò per vari motivi: in primo luogo, perché nella formulazione di una questione di legittimità costituzionale riferita alla violazione dell’art. 11 della direttiva 2003/109 lo stesso giudice a quo aveva escluso (se pure, come detto, con motivazioni probabilmente errate) che detta norma presentasse i crismi della diretta efficacia, per cui non credo fosse compito della Corte, considerata la soluzione finale prescelta (utilizzo del solo art. 3 Cost.), contestare questa valutazione ai fini dell’ammissibilità di una questione comunitaria non affrontata in quanto assorbita da quella interna. In secondo luogo, perché, come lo stesso autore riconosce, il diritto invocato sulla base della direttiva (parità di condizioni per l’accesso all’edilizia pubblica) può essere facilmente ricondotto all’alveo della Carta, che viene infatti richiamata sia nell’ordinanza di rimessione, sia nella sentenza.

Mi sembra quindi maggiormente sostenibile la conclusione per cui la sentenza n. 44 del 2020 conferma la tendenza della Corte costituzionale di affrontare i casi di sovrapposizione tra scrutinio interno e scrutinio comunitario preferendo dare la priorità alle questioni di legittimità costituzionale risolvibili sulla base del solo parametro interno. Quest’ultimo, tuttavia, viene letto ed applicato alla luce della Carta e della lettura che la stessa riceve da parte del suo interprete autentico, la Corte di giustizia.

Su quest’ultimo punto ritorneremo in conclusione di questo lavoro. Al momento, può essere utile sottolineare che, se è vero che nel caso che ha portato alla sentenza n. 44 del 2020 il ricorso alla disapplicazione immediata della legge regionale non è venuto in rilievo in quanto escluso in partenza dal giudice remittente, il fil rouge che lega le due pronunce (nonché molte delle precedenti) è una sottovalutazione del ruolo del giudice comune come protagonista principale dell’applicazione decentrata del diritto dell’Unione, nella diffusa ma non condivisibile convinzione per cui, in caso di legge interna che solleva problemi di conformità sia alla Carta dei diritti fondamentali, sia alla Costituzione, la soluzione al problema debba necessariamente comprendere una “pregiudizialità” piuttosto che la immediata definizione della controversia.

IV. Prove di “doppio rinvio contemporaneo”: le ordinanze della Corte di Appello di Napoli in materia di licenziamenti collettivi

La difficoltà di scelta tra le varie opzioni che la giurisprudenza costituzionale offre al giudice comune risulta per tabulas nell’ultimo episodio che merita un richiamo in questa sede: si tratta dell’iniziativa assunta il 18 settembre 2019 dalla Corte di Appello di Napoli, sezione lavoro, di …non effettuare alcuna scelta ma di adottare due ordinanze di rimessione parallele nella medesima causa (Romagnoli c. Balga srl):[42] la prima propone alcune questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia per ottenere la corretta interpretazione delle regole della Carta dei diritti fondamentali, in particolare dell’art. 30 che garantisce tutela del lavoratore nei confronti di licenziamenti ingiustificati, letto alla luce dell’art. 24 della Carta sociale europea[43]; la seconda solleva questione di legittimità costituzionale del d.lgs. n. 23 del 2015 (c.d. Jobs Act) per violazione di diversi parametri costituzionali tra cui l’art. 117 Cost.[44], utilizzando come parametro interposto nuovamente la Carta dei diritti fondamentali (art. 20, 21, 30 e 47).

La fattispecie all’esame della Corte è l’impugnativa del licenziamento sofferto da una dipendente di una società privata nel quadro di una procedura di licenziamento collettivo. A giudizio della Corte territoriale, le regole inserite dal d.lgs. n. 23 del 2015 per il contrasto ai licenziamenti illegittimi, nella parte in cui sostituiscono ad una tutela reale (la riassunzione) una di contenuto meramente indennitario, comporterebbero un grave vulnus a plurimi principi di origine sia costituzionale, sia europeo, ponendo in essere, in estrema sintesi, un regime sanzionatorio più debole rispetto al precedente, del tutto inefficace rispetto al danno subito con la illegittima perdita del posto di lavoro e privo della sufficiente portata deterrente.

Tuttavia, nonostante la non celata convinzione della incompatibilità comunitaria del regime in questione, la Corte d’Appello non prende in considerazione la strada diretta della disapplicazione immediata del decreto (soluzione comunque tutt’altro che scontata, in ragione dei noti dubbi sull’efficacia diretta dell’art. 30 della Carta),[45] preferendo invece sottoporlo a due giudizi di compatibilità paralleli.

Le due ordinanze sollevano molti spunti di interesse. In questa sede si prescinde volutamente sia (ovviamente) dal merito, sia dai profili, che pure appaiono tutt’altro che irrilevanti, relativi alla correttezza del richiamo alla Carta come parametro “interposto” di costituzionalità in una fattispecie in cui non è chiaro l’inquadramento nell’ambito del diritto dell’Unione.[46] In altri termini, non essendo la disciplina dei rimedi contro i licenziamenti collettivi oggetto di intervento normativo dell’Unione, e considerata la natura programmatica dell’art. 30, non è affatto scontato che la Carta possa venire in rilievo agli scopi indicati dalla Corte d’Appello.

È evidente che una risposta negativa al quesito di fondo porterebbe, da un lato, alla inammissibilità dei quesiti pregiudiziali rivolti alla Corte di giustizia in quanto la fattispecie ad essa sottoposta non rientra nel campo di applicazione del diritto dell’Unione e quindi della Carta, nonché, per gli stessi motivi, alla irrilevanza di alcune delle questioni di legittimità costituzionale costruite sulla pretesa violazione della Carta come parametro interposto di costituzionalità attraverso l’art. 117 Cost., e quindi alla irricevibilità delle relative questioni di legittimità costituzionale

Considerato lo scopo limitato di questo contributo, è più utile approfondire la decisione del giudice remittente di non operare una scelta tra il percorso comunitario e quello interno, ma di percorrerli entrambi in maniera contestuale, senza preoccuparsi, tuttavia, di chiarire in base a quali criteri intende gestire le due procedure parallele e quindi le due potenziali risposte sulle medesime questioni, presumibilmente lasciando che siano le corti coinvolte a trovare una via d’uscita capace di evitare i rischi di sovrapposizione o di divergenza di risultati.

Va infatti sottolineata la circostanza che, come anticipato, tra i due “blocchi” di principi invocati come parametri di valutazione del decreto si rinviene una evidente, sia pur parziale, sovrapposizione, in quanto nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale la violazione dei principi costituzionali interni si risolve, spesso, nell’asserito contrasto con le regole della Carta, utilizzate dalla Corte d’Appello come parametro interposto di costituzionalità attraverso l’art. 117 della Costituzione.

Analizzando più in dettaglio le motivazioni che hanno portato alla scelta del “doppio rinvio” contemporaneo, va segnalato che esse possono rinvenirsi in maniera più dettagliata nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, paragrafi da 14 a 30. La Corte d’appello, pur riferendosi alla sentenza n. 269 del 2017 ed alla regola di priorità che quella decisione prospettava in favore del giudizio costituzionale (peraltro, come la stessa Corte territoriale rileva. superata dalla stessa Consulta nella successiva giurisprudenza), ritiene che detta regola non possa “impedire al giudice a quo di adire la Corte di giustizia dell’Unione europea, in qualsiasi stato e fase del giudizio”. Richiamando la sentenza A. c. B, dell’11 settembre 2014,[47] nonché le successive Global Starnet e XC, prima richiamate, la Corte d’Appello sostiene di rinvenire nella giurisprudenza comunitaria l’assenza di vincoli ostativi alla soluzione di adire entrambe le Corti. Tuttavia, se si valutano da vicino i casi che hanno dato luogo alle sentenze citate, risulta che in nessuno di essi i due rinvii sono stati effettuati o prospettati in maniera contemporanea: dalla sentenza Global Starnet, ad esempio, risulta che il problema del coinvolgimento della Corte di giustizia si è posto nella fase successiva alla decisione già assunta dalla Corte costituzionale italiana.[48] Secondo la Corte di giustizia, infatti, “il funzionamento del sistema di cooperazione tra essa e i giudici nazionali, istituito dall’articolo 267 TFUE, e il principio del primato del diritto dell’Unione esigono che il giudice nazionale sia libero di sottoporre alla Corte, in qualsiasi fase del procedimento che reputi appropriata, ed anche al termine di un procedimento incidentale di controllo di costituzionalità[49], qualsiasi questione pregiudiziale che esso consideri necessaria”.[50] Da questo la Corte di giustizia ricava che “il fatto che la Corte costituzionale italiana si sia pronunciata[51] sulla conformità delle disposizioni del diritto nazionale, costituenti anche l’oggetto della seconda questione pregiudiziale, alle disposizioni della Costituzione italiana che il giudice del rinvio considera, in sostanza, come le norme di riferimento corrispondenti e identiche agli articoli 26, 49, 56 e 63 TFUE e all’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali, non ha alcuna incidenza sull’obbligo, previsto dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte eventuali questioni riguardanti l’interpretazione del diritto dell’Unione”,[52] per concludere che “alla luce dell’insieme delle considerazioni sopra esposte, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 267, paragrafo 3, TFUE deve essere interpretato nel senso che il giudice nazionale le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione anche nel caso in cui, nell’ambito del medesimo procedimento nazionale, la Corte costituzionale dello Stato membro di cui trattasi abbia valutato[53] la costituzionalità delle norme nazionali alla luce delle norme di riferimento aventi un contenuto analogo a quello delle norme del diritto dell’Unione”.[54]

Questa particolare tecnica del “doppio rinvio” lascia comunque perplessi da diversi punti di vista. In primo luogo, come prima anticipato, non è chiaro – né le due ordinanze sembrano fornire chiarimenti in merito[55] – come la Corte d’Appello intenderà regolarsi (sia dal punto di vista della soluzione di merito, sia da quello temporale) rispetto alle due risposte che riceverà; peraltro, trattandosi di operare un giudizio di conformità che coinvolge in sostanza gli stessi parametri, è ovvio che sarebbero difficilmente gestibili due risposte contemporanee (che peraltro potrebbero essere in ipotesi non conciliabili tra loro) o comunque indipendenti, dovendo quindi necessariamente una delle due corti di vertice coinvolte attendere, sia pure informalmente, la pronuncia dell’altra. Logicamente, in questo schema la decisione della Corte costituzionale dovrebbe essere successiva, in quanto la Corte di giustizia possiede il monopolio dell’interpretazione “autentica” delle norme europee, compresa la Carta: ne consegue che il giudizio di costituzionalità alla luce degli art. 11 e 117 sembra presupporre un definitivo chiarimento in merito alla portata degli articoli della Carta che si ritengono violati[56]. Tuttavia, appare davvero poco comprensibile – e non giustificabile alla luce delle regole del giudizio costituzionale – ritenere che, qualora la Corte di giustizia dovesse fornire un’interpretazione della Carta nel senso che essa “osta” ad una regola interna incompatibile, il giudice a quo, chiamato ad esercitare, oramai senza margini di errore, il potere di disapplicazione conferito dal diritto dell’Unione, debba ulteriormente attendere, per fornire giustizia nel caso concreto, una successiva pronuncia della Corte costituzionale intesa a rimuovere definitivamente dall’ordinamento la norma interna confliggente con i parametri europei.[57]

In secondo luogo, non pare che la soluzione del doppio rinvio contemporaneo sia il modo migliore per intendere l’affermazione, contenuta in particolare nella sentenza n. 20 del 2019 e richiamata dalla Corte d’Appello nella sua ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale (par. 27), in merito alla “espressa esclusione di ogni preclusione nell’ambito di un auspicato concorso di rimedi giurisdizionali in una prospettiva di arricchimento degli strumenti di tutela dei diritti fondamentali”. A me sembra che il riferimento all’esclusione di ogni preclusione debba essere piuttosto inteso come un modo per aprire la strada ad un concorso di rimedi giurisdizionali tra di loro alternativi, e non contestuali, nel senso cioè di lasciare al giudice la scelta se indirizzarsi verso il rimedio costituzionale interno oppure verso quello comunitario (disapplicazione eventualmente previo rinvio pregiudiziale). In altri termini, a differenza del sistema “pre-269”, che per le norme europee dotate di efficacia diretta metteva a disposizione del giudice, in presenza di una regola interna difforme, i soli rimedi immediati dell’interpretazione conforme o della disapplicazione della legge, il nuovo sistema riconosce al giudice anche l’alternativa di potersi (e non doversi, come adombrato nell’obiter della sentenza n. 269 del 2017) rivolgere alla Corte costituzionale, in maniera che il giudizio di conformità venga effettuato da quest’ultima con il risultato di giungere ad un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità con effetti erga omnes.

Come si vede, la soluzione prescelta dalla Corte d’appello sembra creare più problemi di quanti ne vorrebbe risolvere. Essa risulta ispirata, come emerge dal par. 29 dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, dalla volontà (evidentemente uguale e contraria rispetto a quella esplicitata dalla Corte costituzionale nella sua più recente giurisprudenza) di evitare che il giudice di merito venga emarginato dal “meccanismo dinamico di arricchimento di tutele tra diritto nazionale e diritto eurounitario”, risultato che si realizzerebbe, sempre secondo la Corte d’Appello, qualora la facoltà del giudice di attivare il meccanismo del rinvio pregiudiziale fosse consentita solo a valle del giudizio di costituzionalità. A me sembra tuttavia che la posizione del giudice di merito venga meglio valorizzata, secondo gli orientamenti della Corte di giustizia, attraverso il dialogo diretto ed immediato con il giudice dell’Unione, in maniera da ottenere subito i chiarimenti necessari per la migliore applicazione del diritto dell’Unione nella controversia che gli è stata sottoposta. Dopo le aporie e le difficoltà prodotte dall’obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269 del 2017, è ora chiarito dalla più recente giurisprudenza della Consulta che nessun ostacolo si pone rispetto a questa scelta nonostante l’eventuale contestuale presenza di dubbi di legittimità costituzionale.

V. Il necessario recupero del ruolo centrale del giudice comune

La scelta del doppio rinvio contemporaneo non sembra la più opportuna, in ragione delle forzature concettuali e procedurali nonché dei rischi di corto-circuiti che inevitabilmente comporta, per cui mi sembra auspicabile che la Corte costituzionale trovi un modo di scoraggiare questa pratica. In ogni caso, l’episodio ora ricordato conferma la necessità di individuare alcuni punti di riferimento più solidi per guidare la scelta del giudice qualora si trovi di fronte a leggi interne sospettate di violare sia le regole costituzionali interne, sia quelle comunitarie (in particolare, ma non solo,[58] la Carta).

In realtà, a me pare che in buona parte questi punti di riferimento siano già presenti nella giurisprudenza delle due corti di vertice. Come ricordato all’inizio di questo lavoro, è stata la stessa Corte di giustizia ad aprire la porta ad un sistema che porti a valorizzare lo spazio di intervento dei meccanismi interni di tutela dei diritti fondamentali anche qualora il legislatore nazionale operi nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, se i principali ed irrinunciabili caposaldi dell’ordinamento dell’Unione vengono fatti salvi.

In definitiva, sembra sia ormai consolidato nella giurisprudenza comunitaria che la summa divisio è determinata dal tipo di intervento normativo effettuato dal legislatore dell’Unione: in presenza di una disciplina per così dire “totalizzante”, che cioè non richiede interventi di attuazione nel diritto nazionale oppure, pur richiedendoli, non lascia margini di discrezionalità trattandosi di interventi a contenuto vincolato (è il caso, per citarne uno, che ha dato origine alla già citata sentenza Melloni), allora la valutazione del rispetto dei diritti fondamentali è in linea di principio demandata alla Corte di giustizia, trattandosi di giudicare, nella sostanza, il comportamento del legislatore dell’Unione. Il giudizio di validità sull’atto dell’Unione è notoriamente riservato ai giudici del Lussemburgo[59] per cui il giudice comune – o la Corte costituzionale,[60] se la questione viene sollevata davanti ad essa, come avvenuto con l’ordinanza n. 117 del 2019[61] – non potrebbe evitare di sospendere il giudizio e chiedere l’intervento decisivo del giudice europeo.[62]

Qualora invece l’atto dell’Unione lasci un margine di manovra al legislatore interno, allora la Corte di giustizia riconosce che il giudizio sulle modalità con cui questa attività discrezionale sia stata esercitata, dal punto di vista del rispetto dei diritti fondamentali, dal legislatore nazionale possa essere svolto attraverso i controlli di prossimità propri del sistema costituzionale interno, intendendo come tali sia il meccanismo procedurale (Melki), sia i parametri costituzionali applicabili (Fransson). Controlli che, in quest’ottica, si presentano come alternativi e non cumulativi rispetto al – preferibile – controllo tipico del diritto comunitario (disapplicazione/rinvio pregiudiziale), sul presupposto che, in un contesto di circolarità di valori comuni, l’applicazione delle regole costituzionali interne e l’intervento delle Corti costituzionali nazionali possano essere un baluardo sufficiente per la tutela efficace dei diritti fondamentali anche qualora la questione sia in linea di principio inquadrabile nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Il sistema di tutela proprio del diritto dell’Unione rimane sullo sfondo, pronto ad intervenire in via sussidiaria qualora, eccezionalmente, questa “apertura di fiducia” porti ad un risultato che non sia conciliabile con i principi di base dell’ordinamento dell’Unione.

Sul versante della giurisprudenza costituzionale, dopo una iniziale obiettiva poca chiarezza, sembra ora che la posizione della Consulta tenda a convergere con quella della Corte di giustizia, dimostrando, anzi, per alcuni versi una maggiore coerenza con alcuni principi di base[63]. Qualora l’atto dell’Unione lasci un margine di manovra al legislatore interno, allora la norma di attuazione sarà in linea di principio sottoponibile ad un potenziale doppio sistema di controllo, quello costituzionale e quello europeo: il “nuovo corso” inaugurato con la sentenza n. 269 del 2017 e meglio precisato nelle pronunce successive comporta infatti che, pur in presenza di una norma-parametro di diritto dell’Unione dotata di efficacia diretta, il “percorso europeo”, come in precedenza definito, non è più l’unico percorribile, potendo il giudice scegliere di investire la Corte costituzionale. Rimane tuttavia il problema di capire, da un lato, in base a quali criteri il giudice si orienterà verso l’una o l’altra soluzione; dall’altro, una volta investita la Corte costituzionale, se l’invocazione contestuale di parametri costituzionali interni e (interposti) comunitari richieda a sua volta una scelta e, in caso positivo, sulla base di quali criteri. A questi due problemi sono dedicate le valutazioni conclusive che seguono.

Per quel che concerne la prima questione, ribadita l’inopportunità, per i motivi indicati, di un doppio rinvio contestuale, la situazione oggi è più chiara in quanto è stato rimosso dalla stessa Consulta l’obbligo di coinvolgimento prioritario della Corte costituzionale preconizzato nell’obiter dictum contenuto nella sentenza n. 269 del 2017. Come da più parti evidenziato, quella ricostruzione del sistema portava con sé il rischio di confliggere con la diversa posizione assunta dalla Corte di giustizia, la quale ha sempre insistito sulla indispensabilità del pieno, immediato ed effettivo esercizio dei poteri attribuiti dall’ordinamento dell’Unione ai giudici nazionali, derivanti dal principio fondamentale del primato del diritto dell’Unione sul diritto nazionale. La giurisprudenza più recente, pur presentandosi come adottata nel solco delle precedenti, appare muoversi nella direzione di ristabilire, almeno in parte, il necessario ordine[64]. Certamente, la sentenza n. 63 del 2019 (così come le successive) conferma la svolta operata dalla n. 269 del 2017, in quanto ritiene ammissibile la qlc relativa ad un asserito contrasto tra la legge interna e l’art. 49, par. 1, della Carta, nella parte in cui vieta (anche) agli Stati membri, qualora operino per dare attuazione alle regole dell’Unione, di disporre il divieto di retroattività delle norme penali più favorevoli. La Corte risponde infatti all’eccezione di inammissibilità, sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, ribadendo che “a questa Corte non può ritenersi precluso l’esame nel merito delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento sia a parametri interni, anche mediati dalla normativa interposta convenzionale, sia – per il tramite degli art. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti”.

A questa inequivocabile affermazione si aggiunge però una precisazione che comporta il superamento della rigidità presente nel dictum della sentenza n. 269 del 2017: rimane infatti fermo il potere (che nell’ordinanza n. 117 del 2019 viene riqualificato in dovere) del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta.

In concreto, il giudice comune[65] ha recuperato (o meglio, visto confermato) il ruolo di garante dell’immediata risposta alla richiesta di giustizia procedendo, in presenza delle note condizioni, alla immediata disapplicazione della regola interna ritenuta non conforme alla Carta. Eventuali dubbi sull’interpretazione della Carta (e quindi, indirettamente sulla compatibilità con la stessa della legge interna) possono (o devono, trattandosi di giudice di ultima istanza) essere risolti grazie all’attivazione del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. Come è facilmente intuibile, sarà questo il metodo prescelto più spesso nella pratica giudiziaria, almeno per due motivi: in primo luogo, per la speditezza della tutela; in secondo luogo, in quanto consente quella valorizzazione del ruolo del giudice comune del diritto dell’Unione (il giudice della singola controversia) e del dialogo diretto con la Corte di giustizia menzionata anche dalla Corte d’appello di Napoli nell’ordinanza commentata in precedenza. È ovvio che questa soluzione porta con sé il problema (di certo non nuovo) della formale vigenza della legge anti-comunitaria: ma la soluzione a questo problema, come anticipato, non può essere quella di forzare le regole del processo costituzionale consentendo uno scrutinio che prescinda dalla rilevanza della questione di legittimità, ma di fare uso del (poco valorizzato in molte analisi recenti ma frequente nella prassi) sistema generale di rimozione dall’ordinamento delle norme contrarie alle regole dell’Unione, vale a dire la loro abrogazione con la legge comunitaria annuale adottata secondo le procedure previste dalla legge n. 234 del 2012.

Rimane tuttavia a disposizione del giudice comune l’alternativa della rimessione di questioni di legittimità costituzionale, alla quale può ricorrere qualora voglia valorizzare il primo baluardo di tutela sostanziale dei diritti fondamentali, quello nazionale: questa soluzione (che la Corte di giustizia accetta alle condizioni prima indicate e di cui, come già visto, la Corte costituzionale prende atto senza più contestarla in punto di ammissibilità) può essere la più adatta qualora le esigenze di uniformità siano meno impellenti, ad esempio quando la norma europea oggetto di intervento di attuazione (e rispetto alla quale sia la Carta, sia la Costituzione possono fungere da parametro di legittimità) lasci un ampio margine di intervento agli Stati membri. Può trattarsi di direttive non dettagliate (è il caso, nella prospettiva della Corte costituzionale, della sentenza 20 del 2019), ovvero di interventi nazionali che coinvolgano la scelta delle misure sanzionatorie in caso di violazione di regole sostanziali derivanti da atti dell’Unione, in assenza di interventi di armonizzazione relativi a dette misure (è il caso della sentenza n. 63 del 2019). In queste circostanze, in applicazione del principio di prossimità, la scelta dovrebbe essere guidata da un’analisi obiettiva della maggiore vicinanza della fattispecie ad un ordinamento piuttosto che all’altro.

Nulla osta quindi, dal punto di vista sia del diritto dell’Unione, sia delle regole costituzionali interne, che la scelta del giudice non sia quella di intervenire in maniera immediata per far fronte a situazioni di conflitto tra una legge interna e la Carta, quanto piuttosto quella di sospendere il giudizio e chiedere l‘intervento della Corte costituzionale.

Resta ferma tuttavia la possibilità (alquanto remota) che detto intervento sia la prima ma non l’ultima parola, in quanto, come prima ricordato, l’applicazione degli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali non può compromettere il livello di tutela della Carta, come interpretata dalla Corte di giustizia, oppure i pilastri sui quali l’intero sistema di integrazione voluto dai trattati istitutivi si poggia: il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Ed allora (e questo potrebbe essere un suggerimento per il migliore utilizzo di questo nuovo sistema) ritengo sia utile che il giudice a quo, in sede di redazione dell’ordinanza di rimessione alla Consulta in punto di non manifesta infondatezza e quindi di esposizione dei dubbi di costituzionalità, precisi se la soluzione prospettata alla Corte costituzionale sia tale da escludere i rischi su indicati, ovvero che sia la stessa Corte, nel fornire la sua soluzione, a motivarla anche alla luce dell’impatto sui parametri europei su richiamati. Questo risultato sarebbe per definizione raggiunto qualora la portata del diritto tutelato dalla norma-parametro venga intesa in conformità con la lettura europea del diritto corrispondente della Carta: come vedremo, questo modello di circolarità virtuosa non è certo estraneo alla recente giurisprudenza costituzionale.

Ulteriore possibilità, in teoria, è quella di cumulare i due percorsi da cui abbiamo preso le mosse, consentendo cioè al giudice comune sia di disapplicare la legge contraria alla Carta, sia di rivolgersi alla Corte costituzionale per ottenerne la rimozione definitiva in quanto contraria alla Costituzione. Soluzione, questa, che si presta alle stesse critiche prima rivolte al “doppio rinvio”, comportando anche forzature di non poco conto dal punto di vista processuale: quale sarebbe la rilevanza di una questione di costituzionalità rispetto ad una legge già disapplicata in quanto incompatibile con le regole comunitarie?[66]

In definitiva, mi sembra che mescolare le carte, attraverso un uso contestuale dei due “percorsi”, porti inevitabilmente a complicazioni che, oltre ad essere per definizione difficilmente gestibili, sono anche, alla prova dei fatti, inutili.

VI. Il rapporto tra parametri interni e parametri europei nel giudizio della Corte costituzionale

Rimane da valutare brevemente l’ultima questione alla quale si è fatto prima cenno, cioè quella relativa alla scelta dei parametri da utilizzare qualora la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi in conseguenza della volontà espressa dal giudice comune di preferire la strada “interna”, si trovi di fronte a dubbi di legittimità costituzionale che coinvolgano sia le regole di vertice nazionali, sia quelle comunitarie (la Carta). La posizione della Corte costituzionale sul punto è nota: in più occasioni ha precisato di non intendere il proprio ruolo di controllo della costituzionalità delle leggi soggetto ad alcuna limitazione, potendo essa decidere “alla luce dei parametri costituzionali interni, ed eventualmente anche di quelli europei (ex art. 11 e 117, primo comma, Cost.), comunque secondo l’ordine che di volta in volta risulti maggiormente appropriato”.[67]

Se questa posizione è formalmente ineccepibile (pur comportando inevitabilmente un certo margine di incertezza), la prassi dimostra che al momento della scelta la Consulta ha sinora preferito svolgere il suo scrutinio soprattutto sulla base dei parametri costituzionali interni, ma con l’accortezza di fornire un’interpretazione dei parametri in questione alla luce delle decisioni dei giudici europei relative al diritto equivalente inserito nella Carta. Nella sentenza 20 del 2019, ad esempio, ha sostenuto che “Questa Corte deve […] esprimere la propria valutazione, alla luce innanzitutto[68] dei parametri costituzionali interni, su disposizioni che, come quelle ora in esame, pur soggette alla disciplina del diritto europeo, incidono su principi e diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione italiana e riconosciuti dalla stessa giurisprudenza costituzionale”. Coerentemente, “avendo la facoltà di decidere l’ordine delle censure da affrontare”, la Corte ha svolto alla luce dell’art. 3 Cost. la valutazione della legge sottoposta al suo scrutinio in tema di riservatezza dei dati reddituali dei dirigenti pubblici, effettuando un bilanciamento, sulla base del principio di ragionevolezza, tra i due interessi coinvolti (il diritto delle persone al controllo dei propri dati personali e il diritto dei cittadini a conoscere i dati in possesso delle pubbliche amministrazioni). Tuttavia, la Consulta non ha mancato di sottoporre le proprie valutazioni – ed in particolare il suo modo di approcciarsi al problema del bilanciamento – ad un test di resistenza, per così dire, alla luce della giurisprudenza comunitaria (cfr. par. 3.1).

Lo stesso approccio mi sembra sia riscontrabile nelle pronunce successive. Nella sentenza n. 63 del 2019, pur premettendo che “il principio della retroattività della lex mitior in materia penale è […] fondato, secondo la giurisprudenza di questa Corte, tanto sull’art. 3 Cost., quanto sull’art. 117, primo comma, Cost.”, di fatto svolge la sua analisi alla luce del primo, anche se la giurisprudenza comunitaria – ma soprattutto quella della Corte di Strasburgo – è ripetutamente chiamata a sostegno della soluzione prescelta. Nella stessa direzione mi sembra si muova anche il ragionamento seguito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 112 del 2019: in quella pronuncia di certo i parametri comunitari e della CEDU sono maggiormente valorizzati, ma in sostanza ciò avviene a conferma di una conclusione (in merito alla (s)proporzionalità della risposta sanzionatoria ad un illecito amministrativo), raggiunta soprattutto alla luce degli art. 3 e 42 Cost.

Significativa è infine la pronuncia più recente (n. 44 del 2020) in tema di accesso all’edilizia pubblica: anche in questo caso[69] la Corte ha preferito pronunciarsi (negativamente) sulla legge impugnata riscontrando una violazione dell’art. 3 Cost., interpretato alla luce delle regole della Carta in materia di diritti sociali.

In definitiva, pur confermando che tra gli strumenti a sua disposizione si annovera anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione ritenuta in contrasto con la Carta (e pertanto con gli art. 11 e 117, primo comma, Cost.), esercitando la facoltà di scegliere i parametri più opportuni in base alle peculiarità della fattispecie la Corte costituzionale preferisce ricorrere a quello interno come “primo” fronte di valutazione della legge rispetto alla tutela dei diritti fondamentali[70]. Tuttavia, lo scrutinio effettuato in base ai parametri interni viene arricchito da riferimenti alla Carta ed alla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Non si riscontrano, invece, casi di applicazione preferenziale delle norme della Carta intese come parametro interposto tramite gli art. 11 e 117 Cost.: potendo effettuare una scelta, la Corte non ha mai (sinora) inteso rivolgere la propria attenzione in modo prioritario ai vizi di costituzionalità riferiti alla violazione del diritto dell’Unione. Si è prima sottolineato come questa scelta risulti coerente con un sistema integrato di tutela dei diritti ispirato al principio di prossimità. Peraltro, qualora il contrasto si realizzi con norme della Carta provviste di effetto diretto, il rimedio della disapplicazione rimane senz’altro da preferire per la sua immediatezza ed efficacia, risultando in ultima analisi contraddittorio che, considerata anche la delicatezza della materia dei diritti umani, il giudice comune riscontri un tale contrasto e al contempo non assuma, nel rispetto del principio della ragionevole durata dei processi, tutte le misure utili per fornire la più ampia e rapida tutela al soggetto che la richiede.

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European Papers, Vol. 5, 2020, No 1, European Forum, Insight of 19 June 2020, pp. 493-522
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/369

* Professore di diritto dell’Unione europea, Università di Napoli “Federico II”; giudice del Tribunale dell’Unione europea. Le opinioni contenute in questo scritto sono del tutto personali e non impegnano l’istituzione, roberto.mastroianni@unina.it.

[1] Cfr. da ultimo F. Donati, I principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione in un sistema di tutele concorrenti dei diritti fondamentali, in Federalismi.it, n. 12/2020, www.federalismi.it, p. 104 et seq. Nello stesso senso P. Mori, La Corte costituzionale e la Carta dei diritti fondamentali dell’UE: dalla sentenza 269/2017 all’ordinanza 117/2019. Un rapporto in mutazione?, in I Post di AISDUE, 3 settembre 2019, p. 55 et seq., www.aisdue.eu; G. Tesauro, P. De Pasquale, Rapporti tra Corti e retroattività della lex mitior, in I Post di AISDUE, 6 maggio 2019, www.aisdue.eu, p. 27 et seq; F. Spitaleri, Doppia pregiudizialità e concorso di rimedi per la tutela dei diritti fondamentali, in Il diritto dell’Unione europea, 2019, p. 729 et seq.

[2] Ho espresso le mie perplessità in Da Taricco a Bolognesi, passando per la ceramica Sant'Agostino: il difficile cammino verso una nuova sistemazione del rapporto tra Carte e Corti, in Osservatorio sulle fonti, 2018, www.osservatoriosullefonti.it, p. 1 et seq..

[3] In merito alla diretta efficacia anche orizzontale della Carta v. ex multis Corte di giustizia: sentenza del 17 aprile 2018, causa C-414/16, Egenberger [GC]; sentenza del 6 novembre 2018, causa C-684/16, Max-Planck [GC]; sentenza del 6 novembre 2018, cause riunite C-569/16 e C-570/16, Bauer e Wilmeroth [GC]. In dottrina da ultimo F. Ferraro, Vecchi e nuovi problemi in tema di efficacia diretta orizzontale della Carta, in Federalismi.it, 22 maggio 2019, www.federalismi.it.

[4] In questa sede preferiamo non utilizzare l’abusata locuzione “doppia pregiudizialità” per la notevole dose di confusione che il suo utilizzo (anche in alcune recenti sentenze della Corte costituzionale) ha provocato, in quanto si tende oramai a qualificare come “doppia pregiudizialità” l’ipotesi del contestuale conflitto di una legge con la Costituzione e con la Carta e la conseguente necessità di rivolgersi all’una delle due corti o ad entrambe per la soluzione del conflitto. In realtà questa consequenzialità non sussiste, in quanto il conflitto tra una norma interna e la Carta si risolve prioritariamente con il ricorso ai rimedi “tipici” del diritto dell’Unione, corollari del principio di supremazia, vale a dire l’interpretazione conforme della legge interna o la sua disapplicazione (cfr. con chiarezza la sentenza della Corte di giustizia del 24 giugno 2019, causa C-573/17, Popławski II [GC]). In questi ultimi casi, evidentemente, non viene in rilievo alcuna “pregiudizialità” in senso proprio, perché il rinvio pregiudiziale è una tappa possibile ma non necessaria del percorso. In definitiva, se la locuzione “doppia pregiudizialità” poteva avere un significato preciso nel sistema “pre-269” (su cui mi permetto di rinviare a R. Mastroianni, Conflitti tra norme interne e norme comunitarie non dotate di efficacia diretta: il ruolo della Corte costituzionale, in Il diritto dell’Unione europea, 2007, p. 589 et seq.), nel quale il chiarimento da parte della Corte di giustizia sulla portata e gli effetti della norma comunitaria poteva incidere sulla rilevanza della successiva (ed eventuale) questione di costituzionalità, ma soltanto in caso di contrasto tra norme interne e norme europee non dotate di efficacia diretta (v. ad es. Corte cost., ord. 29 dicembre 1995, n. 536 e 17 ottobre 2008, n. 415), ne ha meno nel nuovo, nel quale la Corte costituzionale ha acquisito (rectius, si è attribuita) la qualifica di giudice nazionale ai fini del rinvio pregiudiziale ed è stato messo in discussione il “monopolio” di intervento del giudice comune in presenza di un conflitto tra norma interna e norma della Carta (o norma rispetto ad essa derivata o collegata) direttamente efficace. In questo nuovo scenario, l’alternativa non è (o almeno non è sempre) tra rinvio pregiudiziale e rimessione alla Corte costituzionale, come se i due eventi fossero, alternativamente o in coppia, passaggi necessari nella definizione delle controversie che hanno le caratteristiche indicate nel testo (per cui la causa sarebbe “pregiudicata” dallo svolgimento di questi incidenti processuali): in realtà, in presenza di una legge che è sospettata di violare sia la Costituzione, sia una norma della Carta direttamente efficace, l’alternativa è piuttosto, da un lato, la rimessione alla Corte costituzionale (“percorso interno”), dall’altro (“percorso europeo”) rimanere nel solco dei rimedi previsti dal diritto dell’Unione, che può comprendere la fase del rinvio pregiudiziale per ottenere chiarimenti sulla portata della regola dell’Unione e quindi per valutare se ossa “osta” all’applicazione della legge interna in questione, ma che a rigore comporta come prima scelta l’interpretazione conforme, se possibile, oppure l’immediata disapplicazione della legge interna difforme.

[5] Anche in questo caso potrà aversi un coinvolgimento della Corte di giustizia attraverso l’attivazione del rinvio pregiudiziale interpretativo o di validità, avendo la Corte costituzionale superato da tempo la sua pluridecennale riluttanza a definirsi “giudice nazionale” ai fini di cui all’art. 267 TFUE. Con l’ordinanza n. 117 del 2019 la Consulta ha per la prima volta rivolto quesiti pregiudiziali sia interpretativi, sia di validità (per commenti cfr. A. Ruggeri, Ancora un passo avanti della Consulta lungo la via del “dialogo” con le Corti europee e i giudici nazionali (a margine di Corte cost. n. 117 del 2019), in Consulta Online, Studi 2019/II, 13 maggio 2019, www.giurcost.org, p. 242 et seq.; G. Fares, Diritto al silenzio, soluzioni interpretative e controlimiti: la Corte costituzionale chiama in causa la Corte di giustizia, in Dirittifondamentali.it, 11 gennaio 2020, www.dirittifondamentali.it, p. 57 et seq.).

[6] È appena il caso di ricordare che, anche nell’ottica del diritto dell’Unione, il rimedio della disapplicazione “diffusa” non solleva lo Stato membro dall’obbligo di “depurare” l’ordinamento nazionale dalla presenza di una norma in conflitto con regole europee, ma si tratta di obblighi che rispondono ad esigenze diverse e possono quindi seguire meccanismi diversi (v. con chiarezza nella giurisprudenza della Corte di giustizia la sentenza 4 dicembre 2018, causa C-378/17, Minister for Justice and Equality [GC], e nella giurisprudenza costituzionale la sentenza n. 389 del 1989). Nel nostro ordinamento questo obbligo, che ovviamente assume una rilevanza costituzionale alla luce dell’art. 11 Cost., viene assolto a regime (ma non esclusivamente) con l’intervento della legge europea annuale (cfr. legge 234 del 2012, art. 30, comma 3, lett. a).

[7] Corte di giustizia, sentenza del 20 dicembre 2017, causa C-322/16, Global Starnet, punti 21-26.

[8] Corte cost., ordinanza n. 24 del 2017. Con riferimento alla nota saga Taricco, nella ricchissima bibliografia mi limito a ricordare i vari approfonditi contributi contenuti nei due volumi, rispettivamente a cura di A. Bernardi, I controlimiti, Napoli: Jovene editore, 2017, e a cura di A. Bernardi, C. Cupelli, Il caso Taricco e il dialogo tra le corti. L’ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, Napoli: Jovene editore, 2017.

[9] Cfr. ex multis le sentenze del 4 giugno 2015, causa C-5/14, Kernkraftwerke Lippe-Ems GmbH, in particolare punti 33 et seq., e Minister for Justice and Equality [GC], cit., punti 35 e 36, che vale la pena qui citare per intero: “[…] secondo una costante giurisprudenza della Corte, il primato del diritto dell’Unione impone che i giudici nazionali incaricati di applicare, nell’ambito delle loro competenze, le norme del diritto dell’Unione abbiano l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione nazionale, senza chiedere né attendere la previa soppressione di tale disposizione nazionale per via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal senso, sentenze del 9 marzo 1978, Simmenthal, 106/77, EU:C:1978:49, punti 17, 21 e 24, e del 6 marzo 2018, SEGRO e Horváth, C-52/16 e C-113/16, EU:C:2018:157, punto 46 e giurisprudenza ivi citata). È quindi incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto dell’Unione qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto dell’Unione per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme direttamente applicabili dell’Unione (v., in tal senso, sentenze del 9 marzo 1978, Simmenthal, 106/77, EU:C:1978:49, punto 22; del 19 giugno 1990, Factortame e a., C-213/89, EU:C:1990:257, punto 20, nonché dell’8 settembre 2010, Winner Wetten, C-409/06, EU:C:2010:503, punto 56)”.

[10] Ad esempio, con riferimento al principio del ne bis in idem di cui all’art. 50 della Carta, si vedano le sentenze della Corte di giustizia del 20 marzo 2018, causa C-537/16, Garlsson Real Estate e a. [GC], par. 68, e del 24 ottobre 2018, causa C-234/17, XC [GC], par. 38. In dottrina si vedano V. Piccone, O. Pollicino (a cura di), La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: efficacia e effettività, Napoli: Editoriale scientifica, 2018; L.S. Rossi, “Stesso valore giuridico dei Trattati”? Rango, primato ed effetti diretti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Il diritto dell’Unione europea, 2016, p. 329 et seq.

[11] Tra le tante v. Corte di giustizia, sentenza del 5 aprile 2016, causa C-689/13, Puligienica [GC], punti 31 et seq., su cui F. Patroni Griffi, Corti nazionali e Corti europee: verso un diritto europeo dei giudici oltre la crisi del processo di integrazione, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2017, p. 449 et seq. e C. Schepisi, Consiglio di Stato, 'giudicato interno' e rinvio pregiudiziale: ancora sui rapporti tra sezioni e adunanza plenaria, in Il diritto dell’Unione europea, Osservatorio europeo, 31 maggio 2017, www.dirittounioneeuropea.eu.

[12] Corte di giustizia, parere 2/13 del 18 dicembre 2014, Adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, spec. punti 170 et seq. Cfr. sul punto A. Tizzano, Sui rapporti tra giurisdizioni in Europa, in Il diritto dell’Unione europea, 2019, p. 9 et seq., il quale sottolinea che “il diritto dell’Unione esige il primato e la prevalenza sui diritti nazionali, non per ragioni intrinseche alla qualità della sua legislazione o dei suoi giudici. Essa li esige perché è il sistema dell’Unione ad esigerlo, in quanto sistema autonomo – anche sul piano giurisdizionale – volto ad evitare ogni interferenza da parte di altri sistemi nell’interpretazione e nell’applicazione del DUE, inclusa la Carta dei diritti fondamentali”. Questa esigenza, è appena il caso di ricordarlo, assume una valenza costituzionale nel nostro ordinamento tramite l’art. 11 Cost.

[13] Per un noto caso in cui la Corte ha escluso l’esistenza di un tale spazio di manovra v. la sentenza del 26 febbraio 2013, causa C-399/11, Melloni [GC].

[14] Sentenza del 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åkerberg Fransson [GC].

[15] Per un commento cfr. M. Ruotolo, Le incompatibilità nella gestione delle farmacie. Un piccolo omaggio a mio fratello Antonio (in forma di nota alla sent. n. 11 del 2020), in Consulta Online, Studi, 2020, p. 80 et seq., www.giurcost.org.

[16] La sentenza è commentata da C. Padula, Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Consulta Online, Studi, 2020, www.giurcost.org, p. 173 et seq.

[17] Si orientano verso questa soluzione R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in Giustizia Insieme, 4 marzo 2019, www.giustiziainsieme.it; C. Amalfitano, Il dialogo tra giudice comune, Corte di Giustizia e Corte costituzionale dopo l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2019, www.osservatoriosullefonti.it, p. 26 et seq. Ne evidenziano le criticità A. Cosentino, Doppia pregiudizialità, ordine delle questioni, disordine delle idee, in Questione Giustizia, 6 febbraio 2020, www.questionegiustizia.it e A. Ruggeri, Forme e limiti del primato del diritto eurounitario, dal punto di vista della giurisprudenza costituzionale: profili teorico-ricostruttivi e implicazioni istituzionali, in I Post di AISDUE, 31 ottobre 2019, www.aisdue.eu, p. 219 et seq., con particolare riferimento alla indispensabilità di un intervento legislativo che rimoduli il requisito della rilevanza nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Condivisibile la netta critica di N. Lupo, Con quattro pronunce dei primi mesi del 2019 la Corte costituzionale completa il suo rientro nel sistema “a rete” di tutela dei diritti in Europa, in Federalismi.it, 10 luglio 2019, www.federalismi.it, p. 22, il quale ritiene che sollevare un “doppio rinvio” urti con il meta-principio di leale collaborazione, inteso come criterio per guidare il comportamento dei protagonisti di un sistema a rete quale quello che coinvolge giudici, comuni, corti costituzionali e Corte di giustizia: “Così facendo, infatti, il giudice comune, seppure al comprensibile fine di assicurare una (apparente) maggiore tempestività nella tutela dei diritti, rischierebbe di dare origine a corto-circuiti e di stimolare il conflitto, anche involontario, tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, anziché favorire la doverosa collaborazione”.

[18] Senza la minima pretesa di esaustività, mi limito a ricordare tra i contributi più recenti (oltre a quelli già citati supra, nota 1 e nota 16): C. Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla Consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza “comunitaria” e costituzionale, in Rivista AIC, 18 febbraio 2020, www.rivistaaic.it, p. 296 et seq.; A. Anzon Demmig, Applicazioni virtuose della nuova “dottrina” sulla “doppia pregiudizialità” in tema di diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112 e 117/2019), in Osservatorio AIC, n. 6/2019, www.osservatorioaic.it, p. 179 et seq.; A. Cardone, Dalla doppia pregiudizialità al parametro di costituzionalità: il nuovo ruolo della giustizia costituzionale accentrata nel contesto dell’integrazione europea, in Osservatorio sulle fonti, 1/2020, www.osservatoriosullefonti.it, p. 13 et seq.; S. Catalano, Rinvio pregiudiziale nei casi di doppia pregiudizialità. Osservazioni a margine dell’opportuna scelta compiuta con l’ordinanza n. 117 del 2019 della Corte costituzionale, in Osservatorio AIC, n. 4/2019, www.osservatorioaic.it, p. 1 et seq.; D. Gallo, Challenging EU constitutional law: The Italian Constitutional Court's new stance on direct effect and the preliminary reference procedure, in European Law Journal, 2019, p. 424 et seq.; G. Marra, M. Viola, La doppia pregiudizialità in materia di diritti fondamentali, in Diritto penale contemporaneo, n. 3/2019, www.dirittopenalecontemporaneo.it, p. 163 et seq.; F. Medico, I rapporti tra ordinamento costituzionale ed europeo dopo la sentenza n. 20/2019: verso un doppio custode del patrimonio costituzionale europeo?, in Il diritto dell’Unione europea, 2019, p. 87 et seq.; G. Repetto, Il significato europeo della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulla “doppia pregiudizialità” in materia di diritti fondamentali, in Rivista AIC, 4/2019, 25 ottobre 2019, www.rivistaaic.it, p. 1 et seq.,; R. Romboli, Caro Antonio ti scrivo (così mi distraggo un po’), in Consulta Online, 2019, www.giurcost.org, p. 644 et seq.; A. Ruggeri, Ancora un passo avanti lungo la via del “dialogo” con le Corti europee e i giudici nazionali (a margine di Corte cost. n. 117 del 2019), in Consulta Online, 2019, www.giurcost.org, p. 242 et seq.; D. Tega, Il superamento del “modello Granital”. Le questioni in materia di diritti fondamentali tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale, in Consulta Online, 27 gennaio 2020, www.giurcost.org; G. Scaccia, Alla ricerca del difficile equilibrio fra applicazione diretta della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e sindacato accentrato di legittimità costituzionale. In margine all’ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019, in Osservatorio AIC, n. 6/2019, www.osservatorioaic.it, p. 166 et seq,; F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quaderni costituzionali, 2019, p. 481 et seq.

[19] Cfr. sul punto le condivisibili valutazioni di D. Sarmiento, An Instruction Manual to Stop a Judicial Rebellion (before it is too late, of course), in Verfassungsblog, 2 febbraio 2017, www.verfassungsblog.de.

[20] Considerato in diritto, par. 4.

[21] Ivi, par. 3.4.

[22] Sul punto cfr. F. Viganò, Introduzione, in La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, cit., p. 9 et seq.

[23] Sentenza n. 269 del 2017, par. 5.2; sentenza n. 20 del 2019, par. 2.1.

[24] In dottrina v. da ultimo A. Arena, Le situazioni puramente interne nel diritto dell’Unione europea, Napoli: Editoriale scientifica, 2019.

[25] In dottrina per tutti K. Lenaerts, Exploring the Limits of the EU Charter of Fundamental Rights, in European Constitutional Law Review, 2012, p. 375 et seq.; N. Lazzerini, La carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea: i limiti di applicazione, Milano: Franco Angeli, 2018.

[26] C. Padula, Uno sviluppo, cit., p. 178.

[27] Ivi, p. 179.

[28] Si trattava, nella fattispecie, della direttiva 95/46/CE, in tema di tutela dei dati personali.

[29] Può essere utile richiamare i passi salienti della pronuncia della Corte: “Peraltro, tra i parametri interposti rispetto alla denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., il giudice rimettente evoca, oltre a disposizioni della CDFUE, anche i principi di proporzionalità, pertinenza e non eccedenza nel trattamento dei dati personali, previsti in particolare dagli art. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della direttiva 95/46/CE. Ciò non induce a modificare l’orientamento ricordato. I principi previsti dalla direttiva si presentano, infatti, in singolare connessione con le pertinenti disposizioni della CDFUE: non solo nel senso che essi ne forniscono specificazione o attuazione, ma anche nel senso, addirittura inverso, che essi hanno costituito “modello” per quelle norme, e perciò partecipano all’evidenza della loro stessa natura, come espresso nelle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in cui si legge, in particolare nella ‘Spiegazione relativa all’art. 8 – Protezione dei dati di carattere personale’, che ‘[q]uesto articolo è stato fondato sull’articolo 286 del trattato che istituisce la Comunità europea, sulla direttiva 95/46/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali nonché alla libera circolazione di tali dati […], nonché sull’articolo 8 della CEDU e sulla convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale del 28 gennaio 1981, ratificata da tutti gli Stati membri. […]. La direttiva e il regolamento [(CE) n. 45/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio] succitati definiscono le condizioni e i limiti applicabili all’esercizio del diritto alla protezione dei dati personali’”.

[30] Risulta dal testo della sentenza che il giudice remittente (il TAR del Lazio) fosse “consapevole della circostanza che, in fattispecie analoga a quella al suo esame, la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza 20 maggio 2003, nelle cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/0120, Österreichischer Rundfunk e altri) – pur avendo ritenuto, a seguito di rinvio pregiudiziale, che gli artt. 6, paragrafo 1, lettera c), e 7, lettere c) ed e), della ricordata direttiva 95/46/CE contengono norme direttamente applicabili – ha stabilito che la valutazione sul corretto bilanciamento tra il diritto alla tutela dei dati personali e quello all’accesso ai dati in possesso delle pubbliche amministrazioni doveva essere rimessa al giudice del rinvio, escludendo perciò che fosse stata definitivamente compiuta dalla normativa europea”. Da ciò tuttavia non ricava la conclusione, pur consolidata nella giurisprudenza comunitaria, per cui il bilanciamento tra interessi concorrenti, o anche tra diritti fondamentali in caso di conflitti interindividuali, è comunque compito che deve essere riconosciuto al giudice della controversia (v. per tutte Egerberger [GC], cit., par. 80).

[31] Åkerberg Fransson [GC], cit., par. 21: “dato che i diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere rispettati quando una normativa nazionale rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, non possono quindi esistere casi rientranti nel diritto dell’Unione senza che tali diritti fondamentali trovino applicazione; l’applicabilità del diritto dell’Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta”.

[32] Cfr. le Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sub art. 51.

[33] Chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità di una legge interna sia con il diritto di stabilimento o la libertà di prestazione dei servizi, sia sulle libertà tutelate dagli articoli da 15 a 17 della Carta, la Corte di giustizia sostiene che “un esame della restrizione rappresentata da una normativa nazionale sulla scorta degli articoli 49 e 56 TFUE comprende anche le eventuali restrizioni dell’esercizio dei diritti e delle libertà previsti dagli articoli da 15 a 17 della Carta dei diritti fondamentali, di modo che un esame separato della libertà di impresa non è necessario”. Cfr. ad esempio le sentenze del 30 aprile 2014, causa C-390/12, Pfleger e a., par. 60; e dell’11 giugno 2015, causa C-98/14, Berlington Hungary e a., par. 91.

[34] Egenberger [GC], cit.

[35] Corte di giustizia, sentenze del 10 maggio 2011, causa C-147/08, Römer c. Freie und Hansestadt Hamburg [GC]; e del 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold [GC]. Sul punto cfr. G. Vitale, Principi generali e diritto derivato. Contributo allo studio del sistema delle fonti dell’Unione europea, Torino: Giappichelli, 2013.

[36] È il caso della già ricordata sentenza n. 168 del 2014. In quel caso si trattava di una causa promossa dal Governo contro la Regione Valle d’Aosta, ragione per la quale, secondo la prassi consolidata, la Corte non si è posta il problema della diretta efficacia della normativa europea invocata come parametro interposto.

[37] A differenza di precedenti casi, alla Corte non veniva sottoposto il problema della conformità della legge regionale rispetto al principio comunitario di non discriminazione sulla base della cittadinanza (art. 21, par. 2, della Carta e art. 18 TFUE).

[38] In quel caso, tuttavia, il giudizio incidentale veniva promosso dalla Corte d’Appello di Milano invocando come parametro di costituzionalità della legge statale il solo art. 3, con riferimento al principio di ragionevolezza, nonostante l’intero ragionamento dell’ordinanza di rimessione fosse imperniato sulla violazione della direttiva “lungo soggiornanti” n. 2003/109/CE. La Corte, pur accogliendo la questione di costituzionalità in base all’art. 3 per la sproporzione del requisito di residenza in rapporto all’obiettivo perseguito dalla norma, non mancava tuttavia di sottolineare che “la disposizione censurata introduce una irragionevole discriminazione a danno dei cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea, richiedendo solo ad essi il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione”.

[39] Come anticipato, la direttiva sui “lungo-soggiornanti”, all’art. 11, può facilmente essere considerata espressione del principio enunciato all’art. 34, par. 3, della Carta, trattandosi di riconoscere “il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali”.

[40] Sentenza n. 44 del 2020, Ritenuto in fatto, par. 1.

[41] Ancora C. Padula, Uno sviluppo, cit., pp. 177-179.

[42] L’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale si rinviene in www.lavorodirittieuropa.it. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale ha dato luogo alla causa C-32/20, tuttora pendente. Per un commento ad entrambe v. M. Mazzetti, La legittimità della disciplina italiana contro il licenziamento collettivo, in Questione Giustizia, 12 febbraio 2020, www.questionegiustizia.it; una precedente ordinanza del Tribunale di Milano del 5 agosto 2019 in parte sovrapponibile a quella della Corte napoletana è commentata da. M. Tufo, La tutela contro i licenziamenti collettivi illegittimi di fronte alla Corte di Giustizia Europea: l’assalto al Jobs act continua, in Lavoro Diritti Europa, 12 dicembre 2019, www.lavorodirittieuropa.it ed è incardinata presso la cancelleria della Corte con il numero C-652/19.

[43] Questo il testo dei quattro quesiti posti alla Corte di giustizia: “Se l’art. 30 della CDFUE debba essere interpretato nel senso di riconoscere, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi, un diritto a una tutela qualificata da parametri di effettività, efficacia, adeguatezza e deterrenza, in quanto tali requisiti costituiscono il carattere delle sanzioni previste dal «diritto dell’Unione» a salvaguardia del rispetto di valori fondamentali, rispetto ai quali la norma nazionale – ovvero la prassi applicativa – che assicura la concreta misura sanzionatoria contro ogni licenziamento ingiustificato, deve conformarsi. Se, di conseguenza, i suddetti parametri costituiscano un limite esterno rilevante e utilizzabile nel giudizio ai fini delle azioni riconosciute al Giudice nazionale per l’adeguamento al diritto dell’UE della normativa o della prassi nazionale attuativa della direttiva 98/59/CE. Se, al fine di definire il livello di tutela imposto dall’ordinamento dell’Unione in caso di licenziamento collettivo illegittimo, l’art. 30 della CDFUE debba essere interpretato tenendo «in debito conto», e quindi considerando rilevante, il significato materiale dell’art. 24 della Carta Sociale Europea revisionata, richiamata nelle Spiegazioni, così come risultante dalle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali, e se, di conseguenza, il diritto dell’Unione osti ad una normativa nazionale e ad una prassi applicativa che, nell’escludere una misura reintegratoria del posto di lavoro, limiti la tutela ad un rimedio meramente indennitario, caratterizzato da un plafond parametrato al criterio prioritario dell’anzianità lavorativa, e non al ristoro del danno subito dal lavoratore per effetto della perdita della sua fonte di sostentamento. Se, quindi, il Giudice nazionale, nel valutare il grado di compatibilità della norma interna che attua, ovvero stabilisce, la misura della tutela in caso di licenziamenti collettivi illegittimi (per violazione dei criteri di scelta), debba considerare il contenuto elaborato dalla Carta Sociale Europea risultante dalle decisioni dei suoi organi e comunque ritenere necessaria una tutela satisfattiva piena o, quantomeno tendenzialmente tale, delle conseguenze economiche derivate dalla perdita del contratto di lavoro. Se gli articoli 20, 21, 34 e 47 della CDFUE ostino all’introduzione di una normativa o di una prassi applicativa da parte di uno Stato membro, attuativa della direttiva 98/59/CE, che preveda per i soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 coinvolti nella medesima procedura, un sistema sanzionatorio che esclude, diversamente da quanto assicurato agli altri lavoratori sottoposti alla medesima procedura, ma assunti in data antecedente, la reintegra nel posto di lavoro e, comunque, il ristoro delle conseguenze derivanti dalla perdita del reddito e dalla perdita della copertura previdenziale, riconoscendo esclusivamente un indennizzo caratterizzato da un importo determinato in via prioritaria sul parametro dell’anzianità lavorativa, differenziando, quindi, sulla base della data di assunzione, la sanzione in modo da generare una diversità di livelli di tutela basati sul summenzionato criterio e non sulle conseguenze effettive subite a seguito della ingiusta perdita della fonte di sostentamento”.

[44] Ancora una volta, l’art. 11 della Costituzione è totalmente ignorato.

[45] Cfr. M. Pedrazzoli, Art. 30, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Commentario alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano: Giuffrè, 2017, p. 572 et seq.

[46] Troppo debole sembra infatti il richiamo che il giudice remittente effettua alla direttiva sui licenziamenti collettivi n. 98/59/CE, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi: questa si occupa della procedura e dei diritti di informazione dei rappresentanti dei lavoratori, ma non contiene alcuna regola armonizzata in tema di tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo.

[47] Corte di giustizia, sentenza dell’11 settembre 2014, causa C-112/13, A. c. B., su cui mi permetto di rinviare a R. Mastroianni, La Corte di giustizia ed il controllo di costituzionalità: Simmenthal revisited?, in Giurisprudenza costituzionale, 2014, p. 4089 et seq. V. anche A. Guazzarotti, Rinazionalizzare i diritti fondamentali? Spunti a partire da Corte di Giustizia UE, A c. B e altri, sent. 11 settembre 2014, C-112/13, in Diritti comparati, 2 ottobre 2014, www.diritticomparati.it; D. Paris, Constitutional Courts as Guardians of EU Fundamental Rights? Centralised Judicial Review of Legislation and the Charter of Fundamental Rights of the EU. European Court of Justice (Fifth Chamber), Judgment of 11 September 2014, Case C-112/13, A v B and others, in European Constitutional Law Review, 2015, p. 393 et seq.

[48] Si trattava della sentenza della Corte cost. n. 56 del 2015, in tema di concessioni per le attività di gioco e scommesse.

[49] Corsivo aggiunto. Nella precedente giurisprudenza della Corte di giustizia si veda soprattutto la sentenza 22 giugno 2010, cause riunite C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli [GC], par. 51.

[50] Global Starnet, cit., par. 22.

[51] Corsivo aggiunto.

[52] Ivi, par. 25.

[53] Corsivo aggiunto.

[54] Ivi, par. 26.

[55] L’unico fugace riferimento al rapporto tra i due rinvii si intravede in filigrana al par. 26 dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, in cui la Corte d’Appello sembra riferirsi ad una posizione di strumentalità delle questioni interpretative rispetto alla decisione della Corte costituzionale, senza peraltro approfondire la questione.

[56] Cfr. sul punto A. Ruggeri, Una corsia preferenziale dopo la 269 del 2017 per i giudici di “costituzionalità-eurounitarietà”, in Consulta Online, 2019, www.giurcost.org, p. 474 et seq.

[57] Più precisamente, il secondo passaggio in Corte costituzionale, nello schema tradizionale delle “pregiudizialità consecutive”, può essere necessario soltanto in presenza di un conflitto con norme europee non dotate di efficacia diretta, in quanto il giudice a quo non potrebbe egli stesso esprimere l’ultima parola attraverso la disapplicazione della regola interna incompatibile. Anche in questo caso, tuttavia – come peraltro testimonia la prassi – l’adozione di due ordinanze parallele non è utile, in quanto come è noto la valutazione finale della Corte costituzionale presuppone un chiarimento interpretativo della Corte di giustizia sia sulla (mancanza di) diretta efficacia della norma parametro europea, sia eventualmente sul suo contenuto. Sul punto di veda da ultimo l’approfondita analisi di F. Spitaleri, Doppia pregiudizialità, cit., p. 739 et seq., anche per i riferimenti alle pertinenti sentenze e ordinanze della Consulta.

[58] Nonostante l’attenzione della dottrina e della giurisprudenza si sia giustamente concentrata soprattutto sulla Carta, può essere utile ricordare che la tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione si realizza anche attraverso il ricorso ai principi generali del diritto ricostruiti alla luce della CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni, nonché di altri accordi internazionali in tema di diritti umani, non richiamati dall’art. 6 ma a volte invocati dinanzi alla Corte di giustizia prima e dopo l’adozione della Carta (si vedano, ad esempio, per il Patto ONU sui diritti civili e politici, Corte di giustizia, sentenza del 27 giugno 2006, causa C-540/03, Parlamento c. Consiglio [GC]; per la Carta sociale europea, v. Corte di giustizia, sentenza del 10 giugno 2010, cause riunite C-395/08 e C-396/08, Lotti e Matteucci).

[59] Art. 267 TFUE, come interpretato dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza del 22 ottobre 1987, causa 314/85, Foto-Frost.

[60] Rimane il problema di capire se sia più opportuno che lo scrutinio di validità venga richiesto dal giudice comune o dalla Corte costituzionale: se è vero che le valutazioni possono essere differenti e che la Corte costituzionale può essere nella posizione più adatta per individuare le questioni di validità riguardanti la Carta da sottoporre alla Corte di giustizia, è d’altro canto vero anche che, per ragioni di speditezza dell’intervento, la soluzione migliore è che il coinvolgimento della Corte di giustizia avvenga appena il problema viene prospettato dinanzi al giudice comune.

[61] F. Donati, I principi del primato, cit., p. 120.

[62] Ne consegue che al giudice costituzionale non può essere consentita una valutazione “prioritaria” di una legge interna che recepisce fedelmente una direttiva, in quanto questo intervento si porrebbe in frontale contrasto con la competenza riservata al giudice dell’Unione dall’art. 267 TFUE, di giudicare sulla validità degli atti comunitari. Cfr. Melki e Abdeli [GC], cit., punti 54 et seq.

[63] Mi riferisco alla chiara presa di posizione più recente (v. sentenza 63 del 2019 e ordinanza 117 del 2019) nel senso di riconoscere senza riserve in capo al giudice comune il potere/dovere di disapplicazione immediata della legge anticomunitaria, mentre alcune pronunce della Corte di giustizia consentono che, se il sistema nazionale di controllo della costituzionalità delle leggi così richiede, il potere di disapplicazione possa essere temporaneamente sospeso in attesa dello svolgimento del controllo prioritario di costituzionalità. Mi riferisco ovviamente alle citate sentenze Melki e Abdeli e A. c. B. Sul punto mi permetto di rinviare a R. Mastroianni, La Corte di giustizia ed il controllo di costituzionalità, cit. Significativo che, dal punto di vista della dottrina francese, si confermi che con la sentenza Melki e Abdeli “la CJUE accepte l’idée que la QPC puisse empêcher le juge national de ‘laisser immédiatement inappliquée’ une loi jugée contraire au droit UE” (cfr. F. Laffaille, L’ordre constitutionnel français et l’ordre constitutionnel UE. Guerre des Constitutions. Guerre des juges?, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2017, www.osservatoriosullefonti.it, p. 12. Secondo A. Tizzano (Sui rapporti, cit., p. 18), la pronuncia Melki e Abdeli deve essere intesa come “il punto massimo cui la Corte si è spinta in relazione ad una disposizione sollecitata dalle specifiche esigenze di uno Stato membro”. Per una aggiornata ed esaustiva valutazione di insieme di queste problematiche v. F. Donati, I principi del primato, cit.

[64] G. Vitale, I recenti approdi della Consulta sui rapporti tra Carte e Corti. Brevi considerazioni sulle sentenze nn. 20 e 63 del 2019 della Corte costituzionale, in Federalismi.it, 22 maggio 2019, www.federalismi.it.

[65] Si tenga presente, poi, che notoriamente il principio della disapplicazione coinvolge non solo le autorità giurisdizionali ma anche quelle amministrative. La regola di priorità prospettata nella sentenza n. 269 del 2017 non teneva per nulla conto degli effetti sul potere/dovere di disapplicazione che incombe sull’amministrazione, con la conseguenza (abbastanza paradossale) che quello che non era consentito al giudice – disapplicare la legge interna per contrasto con la Carta – non veniva (né poteva esserlo) vietato all’amministrazione.

[66] Secondo F. Donati (I principi del primato, cit., p. 123 et seq.) le criticità in tema di rilevanza della questione di legittimità costituzionale potrebbero essere superate attraverso la sospensione in via cautelare degli effetti della legge sospettata di violare sia la Carta, sia la Costituzione, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale. La legge, quindi, rimarrebbe formalmente in vigore, avendone il giudice solo sospeso gli effetti, il che consentirebbe di superare i problemi di rilevanza della qlc prima ricordati. Mi pare che anche questa soluzione (che comunque troverebbe spazio soltanto in presenza, nella specifica fattispecie, dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora, non potendosi la sospensione dell’efficacia di una legge giustificare per il solo motivo di dover attendere la pronuncia della Corte costituzionale), pur ben argomentata, non riesca a dissipare tutti i dubbi sopra rappresentati rispetto al cumulo di rimedi che dovrebbero, a mio avviso, essere intesi come reciprocamente escludenti.

[67] Sentenza n. 20 del 2019, par. 2.1.

[68] Corsivo aggiunto.

[69] Nello stesso modo la Corte si era peraltro orientata in precedenza valutando altre leggi regionali nella medesima materia: cfr. ad es. la sentenza 168 del 2014.

[70] Mi sembra che questa scelta sia anche in linea con l’esigenza, più volte rappresentata nella giurisprudenza della Consulta (cfr. sentenze nn. 269 del 2017 e 20 del 2019, nonché ordinanza n. 117 del 2019), di consentire alla Corte costituzionale di “contribuire, per la propria parte, a rendere effettiva la possibilità, di cui ragiona l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea (TUE) […] che i corrispondenti diritti fondamentali garantiti dal diritto europeo, e in particolare dalla CDFUE, siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, richiamate anche dall’art. 52, paragrafo 4, della stessa CDFUE come fonti rilevanti”: è evidente che un tale contributo alla ricostruzione dei principi generali che, per definizione, spetta alla Corte di giustizia si realizza quando le corti supreme interpretano le norme di vertice nazionali corrispondenti a quelle della Carta, e non, come a volte si sostiene, quelle della Carta stessa. Cfr. sul punto le condivisibili valutazioni di E. Cannizzaro, Sistemi concorrenti di tutela dei diritti fondamentali e controlimiti costituzionali, in A. Bernardi (a cura di), I controlimiti, cit., p. 45 et seq.

 

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